Fammi accendere
Il sole che mi ha abbronzato per tutta l’estate
ora è un’opaca fiammella che sta per morire;
non è l’esca che manca, ma i morsi di un fuoco che arde.
Il fuoco di Vesta è rimasto acceso fin che un dio l’ha voluto;
or son scemi e calore e vigore, siam quasi alla foto.
Tu stesso giri la manovella del tritacarne per fare salami.
Per sfuggire a quell’elica che ti pressa contro i coltelli trancianti,
che ti passa in trafila dalle piastre forate per fuoruscir dall’imbuto
hai ridotto il tuo cuore a un granello di miglio.
Ti premi a due palmi gli orecchi per non ascoltarti.
Il fatto è che così corazzato non vivi: chi t’ha messo paura?
Chi t’ha messo in questa vetrina che pare prigione,
come hai fatto a legarti tu stesso le mani?
Non vedo più il mare quando guardo i tuoi occhi;
più non vedo il grande sereno del cielo quando mi parli.
Sono ancor più selvatico: orso, lupo, cinghiale.
Preferisci la cravatta di seta; eunuco nel palazzo imperiale.
Ho solo ghiande da darti, radici; ogni tanto un fagiano, un favo di miele.
Lo mangeresti con gli occhi: del salmerino sei solo a metà,
ma lo devi lasciare, non sei leccapiatti,
puah, di solito mangi molto di meglio.
Un pugno nel ventre ti ha parato sul muro:
di chi era il guantone che t’ha sfiatato i polmoni?
Nella caldaia del cuore m’è rimasta soltanto la fiammella pilota:
non hai che d’accendermi, prima che la mano ti si ghiacci pel sido.
A che scopo scaldare se nessuno c’è in casa?
T’assicuro che c’è un bel tepore anche in una tana di lupo o nella grotta d’un orso (1).
Iseo, 14 settembre 2011
(1) Reminiscenza di una poesia di Marina Cvetaeva, Pešera (1936), anaklizzata magistralmente da Jurij Lotman.
Hodites rapito dal tempo La frusta
Fammi accendere by Vittorio Volpi
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