I boxer

I boxer


[durata 38:38]

Marco non era una cima a scuola. Nel primo quadrimestre aveva insufficienti due materie: mate e francese. Col profe di mate era impossibile andasse bene, gli era antipatico. La geometria si capiva da sé, bastava ragionare sulla figura. Sul teorema di Pitagora non aveva esitazioni, voltato e rivoltato, quadrava. Ma l’unica volta che aveva osato chiedere di ripetere, per favore, il teorema delle parallele – forse non era mattina, chi lo sa? – s’era sentito apostrofare con un ghigno di scherno:

– Mi fa piacere: ecco il risultato, testa di rapa! Gioca ai soldatini, vedrai che progressi!

– Ma… – aveva tentato di obiettare. Davvero non era riuscito a seguire la spiegazione; il libro di testo era complicato. Non c’erano soldi per le ripetizioni…

– Senti, bello mio, il mio tempo vale. Giusto? – Lo aveva interrotto il profe. – Tanto più che sono pagato con le vostre tasse, con le tasse che pagano i vostri genitori: è uno scambio di lavoro: loro pagano il lavoro a me, io do il mio lavoro a voi. La-vo-ro, non è una barzelletta. E anche voi siete nella catena e a scuola dovete la-vo-ra-re! Intesi! Però, mi scusi, signorino… tuo padre è commerciante, normale che sempre non dia gli scontrini… – e attese l’effetto della battuta sulla classe. Alcuni sghignazzarono. – Per questo non ripeto la spiegazione a chi non è stato attento. Comprì !

Marco era arrossito fino alle orecchie. Quelle parole lo avevano schiacciato di fronte a tutti i compagni. Non ne capiva che la metà. Si sentì marchiato d’infamia. Francesca l’aveva guardato con una smorfia, schifata. Proprio oggi che aveva un graziosissimo vestito rosa sopra un body bianchissimo, da signorinetta. Si era poi chinata verso l’amica a bisbigliare qualcosa sottovoce, nascondendo la bocca con la mano.

“No! – pensava. – Non di fronte a lei! Che figura! Proprio un pezzente. Ecco quello che sono”.

 

Proprio la sera prima aveva sbattuto a terra le Nike non ancora asciutte:

– Che cosa porto domani? – aveva chiesto alla mamma in tono di rimprovero.

– Ne hai un’infinità, di scarpe! – aveva cercato lei di minimizzare.

Ma le Nike son sempre le Nike. E solo un pezzente mette delle Nike sporche. Devono sempre sembrare come nuove! È un must , altrimenti sei fuori, sei out. No chance! E se sei bravo a scuola sei solo un secchione quattrocchi, che pensa solo ai libri, ai bei voti. Lecchino!

Da allora non era più stato attento. E copiava i compiti. Risultato: Insufficiente in pagella.

 

Pòta . Francese è francese – quasi arabo. Una brodaglia caotica di verbi e di nomi, coi tipi che esistono solo perché son disegnati azzurrini sul libro. Per il resto: più scemi di così!... E si ripeteva le battute: “Émil vuole invitare la sua amica alla festa di compleanno” e bonjour e sympa , trallallero-trallallà… e gli venivan spontanee mille rime in dialetto.

Mai capito un’acca di niente! Tutto appiccicato per l’interrogazione. Ma perché la profe rideva sempre? Non sa cos’è la vita? Che ci sono cose più importanti del francese? A parte général e élève che li sapeva bene, per il resto era un caos con gli accenti. Con la pronuncia un disastro, a parte mur come in dialetto , ma attenzione a mûr che vuol dire “maturo” e si scrive con l’accento circonflesso! Che palle! Ma chi me lo fa fare!

Bene! Insufficiente!

E poi la sberla di papà. Manesco, quello lì, te lo raccomando. E la bestemmia di quando è nero davvero.

– Dimmelo tu perché ti mantengo? Perché lo voglio sapere. Taci! Non dire nulla, altrimenti te ne arriva un’altra! Lo so io perché: perché sei un lazzarone!, uno scansafatiche! E tu questa sera alla mia tavola non mangi! Fila in camera tua e non farti vedere. Sparisci… – aveva stretto il pugno per la rabbia e faticava a controllarsi. Parlava a denti stretti. La cena gli stava andando di traverso… – prima che mi saltino i cinque minuti.

La mamma, pronta, gli aveva messo la mano sul braccio per trattenerlo, e non osava dir nulla.

C’erano würstel sulla grigliatrice. Croccanti, colavan delle gocce di grasso. E il pan carré ad abbrustolire. Macché: non questa sera.

“Allora è meglio se lascio anche la pasta!” – pensò.

Il papà aveva notato il giro di sguardi.

“Ok!”, inghiottì Marco. E senza averlo del tutto deciso si era alzato di scatto facendo rumore con la sedia.

– Sparisci! – gli aveva intimato definitivamente suo padre.

Marco aveva gettato il tovagliolo sul tavolo. Non aveva cercato lo sguardo della mamma (“Sicuramente tiene a papà”). Non aveva nemmeno guardato la sorellina, ammutolita dalla gravità della situazione.

– Sì, vai, che è meglio! – aveva rincarato il papà, invitandolo con un gesto ad andarsene.

Afferrati per i manici coltello e forchetta, li aveva battuti coi pugni sul tavolo. Faceva ogni sforzo per reprimere l’ira che stava scoppiando.

– E domani faremo i conti. Non farti più vedere!... Lavativo! Non ne voglio di lavativi in casa mia. Io faccio il mio dovere e tu fai il tuo. È chiaro il concetto? – gli urlò dietro.

Ma Marco aveva già svoltato nel corridoio buio.

 

Entrò come un automa nella sua camera, senza nemmeno accendere la luce. Si gettò bocconi sul letto. Non sapeva se piangere. Bolliva di rabbia contro tutto e tutti. E si sentiva di non potere fare nulla. Tutto storto. E gli ritornavano le parole che non aveva potuto dire: “Va bene, devo lavorare di più… Ma sei andato una volta ai colloqui? Quel profe ce l’ha con me; gli sto antipatico e non mi darà mai la sufficienza. Vai a dirglielo tu!” Non riusciva a controllare i pensieri che gli si stavano formando in testa: “Ehi! Va bene, lavori, è importante. Siamo una famiglia. Il dovere. Ok! Ok! Ok. Ma… – non osava pronunciare le parole che stava pensando. Le parole gli si ripeterono da sole nella mente; finalmente era riuscito a dirle ad alta voce:

– Ci sono anch’io!

A queste parole era davvero scoppiato in singhiozzi e batteva il pugno sul cuscino. Sentiva il mondo tutto intorno che lo schiacciava. E non sapeva perché. Cos’era che non andava? Che cosa aveva di storto? Perché il profe di mate ce l’aveva con lui? Perfino in scienze cominciava ad andar male:

– La ricerca è copiata da Wikipedia. Non hai nemmeno cancellato i link con [modifica] . Vuoi subito un due o la rifai?

In testa si rifaceva il teatrino immaginandosi che cosa avrebbe dovuto rispondere:

“Che modi! Che domande! Non ho avuto tempo. Scusi – gli veniva da chiedere ironico – posso andare al Centro commerciale una domenica che piove? O mi toglie anche questo? Mi lasciate andare almeno all’oratorio il sabato sera? Sì o no? Non c’è solo la scuola! Ho i miei amici” – “Ma la scuola deve essere al primo posto” canzonò la voce della profe di francese.

Con sorpresa a quella voce si era visto il volto della mamma vicino alla guancia.

Si girò dall’altra parte:

– Col cazzo!... – sbottò. Era la prima volta che osava dire quell’espressione ad alta voce. E la ripeté: – Col cazzo! Col cazzo! Col cazzo! Va bene così?!

E un’altra parola gli premeva giù in gola. “Che me ne frega se è una parolaccia”:

– Fancuuulo! Fanculo! Fanculo! – e continuava a battere il dorso della mano sul cuscino mostrando il medio quant’era lungo. Le labbra tirate continuavano a ripetere:

– Cazzo! Fanculo! Cazzo!

Il copriletto si andava spiegazzando e le pieghe rigavan le guance. Si alzò, lo prese di tutta forza e lo rivoltò dalla parte dei piedi.

– Ricordati di lavarti i denti, – udì la mamma che gli parlava dalla cucina.

Se l’immaginava nel vano della porta, una mano appoggiata allo stipite e l’altra a stringersi una cocca del grembiule.

“Affanculo!” pensò fra sé.

Ma si pentì di averlo anche solo pensato. Lei non aveva colpa. A tutta la rabbia si univa anche questo.

Si sfilò con violenza il maglione e lo scagliò in un angolo.

Si strappò la camicia, tipo Superman, facendo saltare tutti i bottoni. Ma subito si pentì.

Non ne faceva una giusta.

Si tolse le scarpe, sfilandole con la punta dei piedi. Ma non aveva ben allentato i lacci e si infuriò ancora di più, perché la scena non era venuta bene. Prese le Nike e le scaraventò sotto l’armadio. I calzini volarono in aria cadendo a casaccio per la camera. Quasi si strappò di dosso i pantaloni blu della tuta e li gettò con violenza lontano: si appesero alla maniglia della finestra.

Vide che le ante erano ancora aperte. Andando verso la finestra alla luce del lampione della strada si guardò le mutande: i pensieri presero all’improvviso un’altra direzione. Tolse i pantaloni della tuta dalla maniglia e li lanciò sulla sedia della scrivania. Aprì la finestra e il freddo di fuori lo colpì sulla faccia e lo sentì sulle braccia. Sporgendosi sul davanzale per chiudere le ante, il termosifone gli scottò le cosce… Le mutande trasmisero invece un gradevole tepore alle “parti basse”.

Ritornando verso il letto, quando fu sul tappetino pensò:

“Ho ancora le mutande dei bambini piccoli, con l’elastico, i fiorellini, Pa-pe-ri-no! ” sillabò schifato ed incredulo. “Cazzo!” E si arrabbiò per davvero. Se le volle strappare di dosso, come aveva fatto con la camicia. Gli sarebbe piaciuto sentire lo strappo del tessuto; ma risultarono inaspettatamente resistenti. “Un paio di boxer! Non posso avere in questa casa del cazzo un normale paio di boxer? Senza dovermi vergognare quando mi devo cambiare a ginnastica?”

E si rivide in mezzo a tutti con le mutande di una misura più piccole e gli elastici che stringevano e lasciavano righe rosse attorno alle cosce e in vita.

“Che, cazzo!” esclamò fra sé mentre se le toglieva.

E in quell’esclamazione aveva compremuto i mille pensieri che si era fatto nei mesi precedenti… e tutto l’ ambaradàn, come lo chiamava: una sentina di cose complicate, misteriose, terribili e lui imbranato che più non si può. E la paura di tutto che seccava la gola e i comandi laggiù che non obbedivano quando doveva fermarsi! Tutto così in fretta. Tutto da solo! Tutto stramaledettamente difficile. Altro che le parallele! Coi compagni solo battute che capiva a metà e parole smozzicate. E loro? Come facevano?

Si prese in mano el picìn , come diceva lo zio, e lo allungò tirandolo per la pelle, se lo coccolò un momento.

Sbam!

La porta d’improvviso si aprì: era il padre.

Quel che era venuto per dirgli gli si bloccò in bocca:

– No! No! Non è possibile! Non me lo merito un figlio così! Uno lavora dalla mattina alla sera, si fa un mazzo così; e lui se lo mena! Se lo mena, lui! Ma che cos’hai nella testa?

Fuori dalla grazia divina gli assestò uno schiaffo sonoro che rimbombò nella camera con un tinnìto di bronzo e lo fece ricadere sul letto.

– Alfio, ti prego! – la mamma accorse. – È solo un ragazzo. Domani gli passerà.

– Alla sua età già sgobbavo da un po’, io!

Furente di rabbia si lasciò condur via dalla moglie per un braccio. Uscendo sbatté violentemente la porta. Marco sobbalzò. Si coprì tirando giù la maglietta.

Lo schiaffo del papà bruciava sulla guancia.

“Mi ha visto il pisello!”

L’ultima volta che suo padre l’aveva visto nudo faceva ancor le elementari, seconda o terza, fuori in giardino, era estate, nella piscinetta gonfiabile; dopo aveva cominciato ad evitare di farsi vedere, non sapeva bene perché; e anche la mamma, da quando frequentava le medie non era più entrata in bagno a lavargli la schiena. Usava una spazzola col manico lungo…

“Non stavo proprio facendo nulla! Da tutti, ma non da lui! Che vergogna! Che serata maledetta”.

E pensava alla nuova scenata col padre, e all’indomani mattino, a quando avrebbe messo piede in cucina.

E decise fra sé: “Andrò a scuola senza far colazione”.

Si mise sotto le coperte e cercò di calmarsi.

Dopo un po’ sentì la mamma bussare; riconosceva il suo modo, ne vedeva le nocche:

– Avanti.

– No, nulla – rispose con voce calma la mamma dal corridoio. – Se vuoi anche farti la doccia, ti ho preparato tutto. Questa mattina al mercato ti ho comperato un paio di boxer: vedi se ti piacciono. Se non li vuoi, prendi un ricambio dal secondo cassetto… Va bene?

Marco non riuscì a rispondere. Sentendo la voce assurdamente conciliante e gentile della madre, vista la situazione, d’improvviso gli era venuta voglia di piangere.

Si asciugò gli occhi col polso e riuscì a rispondere:

– Va bene, mamma. Adesso vado. Grazie per i boxer.

Davvero non riusciva a litigare con la mamma. Lo anticipava sempre.

“Sì, ecco – pensò – solo lei mi capisce… Ma lei è la mamma…”

E già un po’ si era rasserenato.

Raccattò per la stanza i vestiti che aveva gettato alla rinfusa, si tolse la maglietta e si mise l’accappatoio. Affagottò la biancheria da lavare.

“Càmbiati tutti i giorni!” riudì la voce della mamma, “tanto è la lavatrice che lava”.

Per un giorno solo la biancheria non si sporcava quasi di nulla ed era anche più facile lavarla. E cambiarsi ogni giorno era diventata un’abitudine.

Infilò le ciabatte e si chiuse nel bagno.

Dopo qualche istante, il tempo di buttare la biancheria nella cesta del bucato e appendere l’accappatoio, che la doccia fumava. Sui ripiani, accanto alle salviette, aveva visto i boxer nuovi. Avevano un disegno ad arabesco. Se li provò contro la pelle; lisci come seta. Di colore indefinito, fatto di mille piccoli disegnini, spirali e linee che si annodavano l’una nell’altra con belle proporzioni.

Entrò sotto l’acqua e sentì gli spruzzi battergli forte sulla pelle, come una grandine fitta. Appoggiò il braccio contro la parete, un po’ sopra il miscelatore, e la fronte sul braccio. E stette a pensare.

Per lunghi istanti non osò muovere un muscolo; teneva le palpebre chiuse e si lasciò punzecchiare la nuca e le spalle dal getto forte dell’acqua. Era quasi come un massaggio. Per un po’ si godette i rivoli d’acqua bollente che gli percorrevano il corpo riscaldandolo e rilassandolo. Sentì che anche i nervi del volto si distendevano; e gli venne quasi da ridere.

Poi si girò per farsi uno shampoo e si frizionò i capelli. Pensò al gel che ogni mattina si metteva per farsi la “cresta” come le scaglie lungo la schiena del T-Rex. Sorrise della propria ingenuità: non aveva proprio fatto paura a nessuno. Era solo una sua stramberia. Francesca aveva sorriso divertita il giorno che era andato a scuola conciato così: era stato davanti allo specchio almeno un quarto d’ora per farsi come si deve le punte.

D’un tratto si accorse di non esser più arrabbiato, come d’incanto, ed era del suo solito umore.

Pensò di masturbarsi, ma non aveva voglia: gli pareva di non avere pensieri, non riusciva a concentrarsi. Gli sembrava di passare da un eccesso all’altro. Pensò al getto dell’acqua che cadendo…

Si alzò sulle punte dei piedi e regolò la cialda della doccetta. Si sedette sulla pedana, assestandosi in modo che il getto cadesse nel punto giusto. In men che meno il rondinello aveva aperto le ali, pronto a volare. Marco provò l’elasticità del saltamartino e si divertiva a giocarci. Alla fine lo lasciò disteso a pancia all’aria, fece scivolare indietro la pelle e scoprì il fungolino – così lo chiamava, non sapendo se avesse un nome. L’acqua batteva dritta sul frenulo. Con le mani continuava a spostare il ciribicchio, perché l’acqua cadendo nello stesso punto, dopo un po’ pizzicava. Il solletico era quasi insopportabile, ogni tanto doveva fare come un tettuccio con le mani per coprir l’officina, e attendere. Il prepuzio stringeva, quasi da far male; mica era facile tener a bada “la bestia feroce” che sentiva i cardini della gabbia che venivano oliati con l’antiruggine ferox.

Furono attimi calmi; la cascata dell’acqua che mirava il bersaglio, e i brutti pensieri sciamarono via dalla testa, come pipistrelli di notte… e la sfiga in compagnia! Söl paiùn! Esatto!

L’acqua gli aveva lavato persino i pensieri, era avvolto nel caldo vapore. Sentì un pizzicorino salirgli fino al labbro; un brivido dolce gli percorse le membra: l’eccitazione stava montando, sentiva pulsare la vena più grossa, e il respiro s’era fatto d’un tratto ansimante; dopo lunghe apnee mugolava, guaiva, riprendeva fiato di nuovo. Si sorprese che non stesse immaginando nulla: né tette, né donne nude, né pornazzi su internet, né la curiosità di vedere com’era fatto quello degli altri. Nulla, solo tra sé e sé, e il corpo reagiva anche senza i pensieri, le fantasie solite… e stava venendo da solo, lì, sotto il getto dell’acqua, ed era stata una serata d’incazzatura tremenda.

– Aaahhh! - Aaahhh - Aaahhhhh! – sospirò, solo un attimo dopo. Strizzò gli occhi e inseguì il piacere che gli rattrappiva le gambe in scatti convulsi e gli faceva inarcare la schiena.

Il seme gli arrivò d’impeto sino al collo, e poi via via sul petto, sul ventre, e una goccia rimase sulla punta, indecisa. Stette un poco così ripiegato a godersi il dorato piacere che gli pareva come una luce accesa dentro nel corpo.

Dopo il suo tempo, tutto finì.

Si passò sul salsiccino, ancor forte e teso, il pollice e l’indice a ricoprire con la sua pelle il cipollino lucido e paonazzo. Sensibile com’era, per qualche minuto non si poteva toccare. Spremette le ultime gocce di seme, e l’acqua se le portò via.

Gli venne spontaneo un profondo respiro a pieni polmoni e capì che si era del tutto calmato. Tutta la tensione e la rabbia e il malumore e la luna se n’erano andati dal buco dello scarico; solo un ricordo la discussione avuta con papà e la scena in camera.

“Mamma però è brava davvero”, pensò fra sé. E questo gli rimase come saldo pensiero.

Si rialzò, girò il diffusore sul getto a pioggia, si risciacquò, chiuse l’acqua e uscì dalla doccia.

Si mise l’accappatoio e ancor prima di legar la cintura si asciugò la testa. Il piccetto era ancora un po’ sbandierato dopo la salita alla vetta, faceva sue mosse, suoi atti, senza comandi, e sbirciava dall’apertura dell’accappatoio.

Marco si chiese quando gli sarebbero spuntati i primi peli. Allora sarebbe stato forte, invincibile, grande, tutto d’un pezzo, senza paura di nulla. Si sentiva già eroe. E avrebbe fatto i conti col papà! Giurato che sì!

Si asciugò per bene fregandosi il petto, la schiena, usando le falde per asciugarsi le gambe. Quando si sentì quasi asciutto si tolse l’accappatoio e lo appese all’attaccapanni; col salviettone finì d’asciugarsi.

Prese i boxer e li indossò: una sensazione magnifica. Alzò le mani come avesse vinto una gara. Si premette il picceddu tutto fiero e consolato, ora si godeva il riposo dopo la bella performance . I boxer eran del tipo con bottone a metà dell’apertura: non c’era pericolo che si aprisse magari una piega e glielo potesser vedere… Ehi, ci teneva al proprio birillo! L’unico segreto che gli fosse rimasto. E si vide nello spogliatoio della palestra a cambiarsi dopo l’ora di ginnastica, quando tutti si fanno gli scherzi.

“Basta con Paperino!” ed era proprio contento.

Il bagno era pieno di vapore: aprì la finestra e vide contro il soffitto nuvolette che se ne uscivano. Gli specchi tutti appannati. L’avessero pur visto dalle case di fronte! Con quei boxer avrebbe anche attraversato la piazza, tanto gli piaceva sentirseli in dosso. Un soffio d’aria fredda gli passò sui capelli bagnati e sul petto. Richiuse.

Senza pensare aprì l’armadietto dei detersivi, prese lo spruzzino anticalcare e pulì le antine della doccia, strofinando con la spugnina verde, dalla parte morbida; poi le asciugò col panno e lo stese sul termosifone ad asciugare. Non l’aveva mai fatto: tanto lo faceva la mamma. Ma quella sera era in vena. Passò persino lo straccio sul pavimento per asciugare il bagnato. Riaprì la finestra per cambiar l’aria e ciabattò in camera sua. A metà del corridoio gli venne da fischiettare un motivetto, ma non era di nessuna canzone, se l’era inventato al momento.

Dal secondo cassetto prese una maglietta e l’indossò. Poi si avvicinò alla porta per udire che cosa succedeva nel resto della casa.

Mentre rigovernava, la mamma aveva seguito tutti i rumori e sapeva che Marco era in camera sua, la porta era socchiusa, ne usciva sul corridoio una lama di luce. Bussò comunque alla porta del bagno e non sentendo risposta entrò.

Notò la finestra aperta, le antine pulite, il panno sul termosifone. Che i boxer non eran più sul ripiano. Aveva visto tutto, di tutto aveva preso debita nota, ma non riusciva ad avere nessun nuovo pensiero. Dentro di sé sentiva d’esser contenta di Marco, che era in fondo un bravo ragazzo, che ci voleva un mare di pazienza, che bisognava saperlo prendere per il verso giusto.

Distese il salviettone per bene, e senza un motivo, d’istinto, si coprì il volto con le mani, si premette gli occhi e le guance: in quel buio sentì di esser contenta.

“Che stupida!” si disse, e tirò su col naso.

Trovò altre piccole cose da fare.

Poi andò da Marco, bussò alla porta:

– Dormi?

– No, entra pure.

Marco ci teneva che vedesse come gli stavano bene i boxer nuovi. Un po’, fra sé, si vergognò del rosso che si sentiva ancora sulle guance – ma questo lo sapeva solo lui, e anche se lo avesse saputo, lei avrebbe sorriso e non avrebbe fatto domande.

– Sono proprio belli i boxer che mi hai preso!

– Perfetti, mi pare!

– Come mi stanno?

– Sei uno schianto! – esagerò la mamma.

Marco non resistette e corse ad abbracciarla, appoggiandole poi teneramente la guancia contro la spalla:

– Grazie…E scusa… Di tutto.

– Di che? Son cose che capitano, dai… Tirati su, – disse un po’ imbarazzata.

– Sarò più bravo. Te lo prometto. “Promessa di lupetto”… Dillo a papà!

– Diglielo tu. Non aver paura, gli è passata. È di là che vede la tele. Vai, che è importante.

– Così, in boxer. E Giulia?

– Giulia è già a letto. Adesso ci vado… Sì, in boxer. O Valentino vestito di nuovo come le brocche dei biancospini…

Marco sorrise. Tutte le volte che la mamma citava quel verso si figurava una pianta di biancospino con tante brocche d’acqua appese ai rami… E sempre l’immagine lo faceva ridere. Pure la mamma rideva.

– Vai, ti vuole bene… – e gli accarezzò la nuca mentre usciva in corridoio.

La mamma andò nella stanza di Giulia, per farle prendere sonno.

Marco si arrestò nel vano del salotto. La sala era illuminata solo dalla luce del televisore.

Il padre si volse e lo notò, ma non disse una parola. Solo, deglutì notando che era in boxer e maglietta.

Marco stette fermo. Brividi leggeri lo facevano tremare un po’. Non era soltanto per il freddo. Era un tantino emozionato. Un momento importante. Aveva ragione la mamma.

– Vieni, – gli disse il papà, con una voce senza tono, – che fai lì impalato, vuoi prenderti un raffreddore?

Allungò la mano al telecomando e tolse l’audio, continuando a guardare senza vederle le immagini che intanto scorrevano. Senza voltarsi batté la mano sul cuscino accanto.

Si volse e guardò bene il suo Marco: gli parve tutto ad un tratto più grande, soprattutto il torace. Da quanto non lo guardava così? Si era ormai abituato “ad averlo fra i piedi”.

– Dai, vieni.

Prese il plaid sul bracciolo e lo distese sul divano.

Marco, timido, si avvicinò.

– Ah, ti è passata! – osservò il papà.

Marco taceva, non riusciva a sputare il rospo.

– Prima… – osò alla fine.

Ma il padre lo interruppe, quasi contemporaneamente. E la combinazione li mise di buonumore (ma non era il momento di fare flic e floc ).

– Scusa tu. Non volevo! Davvero. Non ero venuto per parlare di quello. Non incazzato com’ero! – Si prese le tempie fra le dita e scuoteva la testa.

– Non fa niente…– sillabò Marco, – fra maschi… – e sorrise. – Un po’ però mi sono vergognato.

– E di che cosa? Stai crescendo. È giusto che… – ma non gli vennero altre parole.

– Niente, anzi…– rispose Marco, e alzò la mano con un mezzo sorriso per dire che non era nulla, che non valeva parlarne.

– Scusa ancora, io…

– Non stavo facendo nulla… davvero – e arrossì, pensando più alla doccia che all’esser stato visto da papà. La luce del televisore non era sufficiente, e si rassicurò.

– Mettiti qui sotto, – disse il papà, e alzò la coperta. – Stai prendendo freddo.

Marco si sedette accanto al papà e gli avvolse le spalle con un braccio.

Il papà accomodò il plaid in modo che avvolgesse entrambi.

– Prometto… – azzardò Marco.

– Non promettere nulla, – interruppe di nuovo il papà. – Fai, e basta.

E poi proseguì, con tono dolce e comprensivo:

– Ci sono cose più importanti della scuola. Come anche cose più importanti del lavoro: voi ad esempio. Hai fatto quel che hai potuto. Forse non è nemmeno del tutto colpa tua. Verrò a parlare coi professori.

Marco si sentì nel petto una gran commozione, cercava di comprimerla e si sentì avvampare in volto. Gli occhi si stavano velando di lacrime. Ancora una parola e sarebbe scoppiato.

– E come mai i boxer, questa sera? – chiese il papà.

Marco gli fu grato che avesse cambiato discorso, togliendolo da una situazione imbarazzante.

– È stata la mamma…

– Mmm! – fece il papà.

Marco non voleva toccare un argomento sottile come una crosta di ghiaccio.

– C’è qualcosa che volevi dirmi? – chiese il papà e la domanda fece rabbrividire Marco.

Si rannicchiò sotto la coperta, sfilando le ciabatte e rannicchiandosi sul divano.

– Forse la mamma sa…

– E io non devo sapere?

– Sì…, – ma non ebbe più parole.

Dovette deviare un poco il discorso:

– Forse ha visto delle macchie…

Marco respirava a fatica, pronunciava le parole con difficoltà, in tono basso.

– A volte, di notte… faccio dei sogni… E poi…

– Hai smesso da molto di fare pipì a letto, o sbaglio, – e ridacchiò…

– Dai, che hai capito, e gli dette un pugno leggero sulla spalla.

Marco sentì il braccio del papà che lo stringeva contro di sé.

– Non dire più nulla. È una cosa tua, – risposeil papà. E lo baciò in fronte, con tutta la tenerezza di un padre che vede crescersi un figlio. – Ti voglio bene.

– Anch’io, – rispose Marco.

A Marco parve di sentire sotto quella coperta un calore che non aveva mai sentito, un nido in cui era bello rimanere accoccolato. Il respiro del papà gli faceva intuire quanto fosse grande il suo petto, le sue braccia, riudiva il timbro basso della sua voce… Quanto fosse importante il lavoro, che bello avere una casa, e che sacrifici…

Ma d’improvviso scoppiò a piangere e pareva non volesse più smettere.

Il papà faticava a comprender le parole che diceva. A tratti gli pareva di udire “mate”, “il profe”, “francese”…

– Non pensarci. Almeno questa sera. Sta’ qui con me. Domani saprai da te quel che devi fare.

E con voce diversa, con un piglio quasi allegro:

– Hai i boxer nuovi adesso!

– Confessa! – rise Marco, – l’idea è stata tua!

E rimasero abbracciati in silenzio finché non comparve la mamma. Si unì agli abbracci e poi invitò tutti ad una bella dormita.

 

Cremignane 10 maggio 2011.


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