Vai al cuore

Vai al cuore

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   Ho sempre sognato di percorrere le steppe dell’Asia in mountain-bike.

   E finalmente un giorno parto. Da Odessa mi inoltro nella steppa ucraina, fra i girasoli e la memoria degli Alpini. Molti gli incontri. Gli animali e perfino le rade pietre sanno parlarti.

   Mi accompagno per qualche giorno a un gruppo di zingari. Il clan è molto unito: affetti elementari e corposi, una vita senza soste definitive, perché il mondo è troppo vasto, inebria, attrae e se non lo vedi poi ti mancherà. Si procede a passo d’uomo, con misura; i carrozzoni sono trainati da cavalli all’ambio. Molto di me, del mio passato, dell’Occidente da cui provengo stride a confronto con questa povera-ricca gente. Il contrasto più evidente è fra la mia bici e i loro cavalli. La scambio una sera, attorno ad un bivacco, con un arco di corno.

   Via via mi assimilo a loro, butto zavorra. Gli occhi non reggono la gran vastità della steppa… e noi vivi in tutto quel vivo.

   In vista di Samarcanda ci salutiamo; la città contamina: c’è il rischio di metter radici. Mi hanno lasciato un cavallino docile docile, che mi si era affezionato. Perciò non potevano più tenerlo; mi aiuterà e mi terrà compagnia per il resto del viaggio. Mi sento cambiato, pieno di nuove cose, come un minareto decorato a mosaico, o una tunica damascata.

   E il sole… e l’aria… e l’acqua nella conca delle mani.

   Ho perso il portafogli, con tutti i soldi e i documenti… mi accorgo d’un tratto che non mi serve più: sento di avere una diversa ricchezza... e una diversa identità.

   Marea di volti al mercato di Buchara. Quanto sono lontano da casa, dal lavoro, da tutte le persone conosciute in quarant’anni. I ricordi quasi tutti svaniti di fronte a un presente che formicola, che incanta, t’inghiotte.

   E il sole che ti scotta la pelle, e il vento che ti chiama lontano.

   – La polvere del viaggio ti fa troppo pesanti le palpebre, ragazzo, – mi dice un vecchio seduto a bere il suo čaj. – Va’, làvati gli occhi, lassù, nel bianco Paese degli Uomini rossi.

   E via allora di nuovo. Verso il Tibet, dove la neve è più bianca, dove i monaci mi laveranno gli occhi, per vedere in me l’orizzonte che fuori non vedo.

   E che pace…

   – La Cina ci ha massacrati – mi dicono – ora siamo solo periferia. Non è più qui quel che cerchi. Vai al centro, ragazzo, vai al cuore.

   Il monaco più anziano si ricorda di Tucci, di Maraini, gli è giunta notizia dell’impresa di Desio e di molti altri italiani... Dopo giorni risento la parola “italiano”. Mi chiedo se ho ancora una patria, se ancora ha un senso, se per caso la parola non mi appesantisca il bagaglio. E vado ancora.

   A Katmandu la feccia dell’Occidente viene a morire, disperata. Ragazzi con l’ennesimo volto di Cristo annegano nel vomito la nausea del vivere. Riversi per terra, storditi, esausti, svuotati, annichiliti, agonizzano nel loro Getzemani.

   – Vai – mi dice un monaco zen – noi non abbiamo più nulla, il nostro cuore è in esilio, è altrove. Vai. E se qualcosa da noi ha imparato, ben sai che il cuore non ha un dove, non ha un come, esiste affinché anche tu esista. E vedilo, lì, sulla punta della freccia che da sempre stai per scoccare. Tendi l’arco senza mira, non sia tu a decidere quando scoccare la freccia: da sé il centro verso di te muoverà. Allora saprai di esser arrivato: lì sarà il cuore che cerchi. In fondo, anche il tuo cuore. Vai ora, qualcuno già ti attende, sa che vai per il mondo e risparmia per te i baci più dolci, gli sguardi più teneri, l’abbandono più intimo. Vai al cuore. Cerca anche il tuo cuore; da stupirne alla vista: profondo, variegato, dolcissimo, come quello di lei: eguali da non saperli distinguere… e ti aspetta. Vai, aspetta te, sei per lei come la novità di un bambino. La vostra storia è già leggenda nel mondo.

   E via ancora: “dentro” la Grande Cina, nel suo cuore, nell’occhio stesso del turbine, per constatare, col Tao, il termine ovvio di ogni paradosso. Immensa è la Cina: profonde le foreste, lunghi i sentieri, contorti i pensieri, elegante il linguaggio.

   Giungo un giorno ad un villaggio. Un contadino lavora un campicello accanto alla sua capanna.

   – Posso lavorare per voi, sulla vostra terra?

   – Certamente – risponde – questa terra, però, non è mia più di quanto non sia anche tua: «la terra è di chi la lavora», ha detto una volta il Presidente Mao. Férmati, riposati, potrai lavorare anche domani, la terra non scappa, e il lavoro nemmeno. Bevi una tazza di tè. Poi rimani se vuoi, la mia casa sarà onorata di averti, tu che non hai chiesto ospitalità, ma offerto di viverci senza peso, sollevandola dal lavoro. Ti do il benvenuto, e con me i Lari della mia umile casa.

   Nel profumo di gelsomino svapora il senso del tempo, che ora placido dà modo alla vita di svolgersi. Non più l’inesorabile clessidra, l’orrenda falce e il tremendo giudizio che fanno a volte così tetra e amara la vita, ancor prima del termine.

   Un respiro profondo riempie i polmoni, un senso sereno di vita, d’intenso sapore, riempie del proprio entusiasmo il trepido sguardo.

   La zappa non è più fatica, è preghiera; ogni germoglio un Natale divino. L’Italia è all’altro capo del mondo e di tutti i pensieri; sulla via della Cina scordi un dopo l’altro i ricordi e rinasci. Un sorso di Lete ogni volta che bevi. E scordato chi fosti, ritrovi chi sei.

   In Cina, dove un sentiero, dietro la collina porta al tempio Shao-Lin. Ogni giorno vi sali: è un cuore di saggezza e d’amore.

   Il giardiniere, così provvido, ti ha potato del superfluo e del troppo: ed ora, bravo, buono e bello – così contento di te – hai l’animo di chiedergli la figlia in isposa. Il cuore… e senti quando sei arrivato: nessun cartello che indichi un ‘oltre’, più nessun ‘al-di-là’.

   Con cura Li-Sheng mi apprende nuovo cinese, muto i pensieri e il vedere le cose, mi apre la mente e dischiude nel petto il mio cuore come un fiore di pesco, mentre il suo me lo reca da bere alle labbra in omaggio soave.

   Chi fui, chi saremo, o basta il chi siamo di ora?

   Si apre il cuore e lo spazio, pur infinito, non lo può contenere.

   Si apre il cuore e il tempo, per eterno che sia, non basta al suo darsi.

   Si apre il cuore e l’energia rompe il guscio in cui una formula la teneva coatta.

   “Vai al cuore” mi fu consigliato, e ora capisco: ho trovato anche il mio e già più non lo distinguo da un altro e da un Terzo che insieme ci tiene e ci fonde.

   Là, in Cina, nel villaggio del tempio, nel giardino dei gelsomini, nell’abbraccio della dolce Li-Sheng, l’anno della grande carestia.

 

Cremignane 1997

[Nota curiosa. Solo dopo aver iniziato lo studio del cinese, precisamente la sera dell’8 febbraio 2010, sono venuto a sapere che shèng-lì 胜利 significava vittoria, mentre li-sheng ha significati molto lontani e difficilmente utilizzabili come nomi di persona: 厉声 lìshēng con voce severa; 厘升 líshēng centilitro; 礼生 lǐshēng cerimoniere]


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