Ameraldi - 7.2. La Spagna Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 193-210.


7.2. La Spagna (parte seconda)

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Ai primi di settembre mi venne dunque comunicato dal Ministero che ero stato trasferito «dalla scuola di Tunisi a quella di Santander» a decorrere dal 1° del mese. Avrei dovuto trovarmi nella nuova sede entro il 23. I documenti mi giunsero da Roma solo il due ottobre.

Prima di partire per la Spagna, ebbi giorni, o meglio, ore di intensa vita interiore, di puro e grande entusiasmo ed avrei allora voluto fare un testamento spirituale, ché i pensieri più nobili mi si agitavano dentro.

Mi limitai ad una visita, nel pomeriggio del 1° ottobre, al Cimitero, dopo essere stato sul castello di Leutelmonte a guardare la valle verso il tramonto.

Durante il viaggio mi fermai a Tolosa, dove il Console italiano mi diede istruzioni dettagliate per l’ingresso in Spagna.

I nostri ambasciatori presso la Repubblica Spagnola , Raffaele Guariglia e Orazio Pedrazzi, non erano stati molto zelanti nell’allacciare rapporti con le autorità spagnole. La stessa propaganda fascista non riusciva a controbilanciare quella antifascista della stampa borghese e della sinistra spagnola.

Il nostro primo ambasciatore presso Franco fu Roberto Cantalupo, che rimase a Salamanca poco meno di due mesi, rendendosi un poco inviso a Ciano con la propria franchezza e lucidità di analisi della situazione spagnola: criticava soprattutto l’attività autonoma e parallela del PNF in Spagna, sollevando obiezioni sull’opportunità della visita di Farinacci, avvenuta all’insaputa dell’ambasciata. Non condivideva in particolare la “moda” di costituire “Case d’Italia” e “Case del Fascio” nelle città via via che venivano inglobate nella zona dei nazionali.

Completamente indipendente rispetto all’ambasciata era anche l’ufficio stampa e propaganda installato a Salamanca nel dicembre 1936 diretto da Guglielmo Danzi, autorevole rappresentante del partito e giornalista. Dal 19 marzo 1937 al 30 agosto 1938 si pubblicò anche un giornale, «Il Legionario» col sottotitolo «Quotidiano dei legionari italiani combattenti in Spagna»diretto dallo stesso Danzi.

Nostro Console a San Sebastián era il giovane marchese Francesco Cavalletti. Ma dipendevo contemporaneamente dal barone Carlo Emanuele Basile, capo dei Fasci italiani all’estero per la Spagna.

Appena giunto a San Sebastián presi alloggio al grand hôtel “Maria Cristina”e mi presentai al nostro Console per le necessarie istruzioni. Scoprii che a Santander non esistevano scuole italiane come a Tunisi. Mi fu assegnato il compito di istituire e tenere un corso di lingua italiana alle dipendenze dell’istituto Italiano di Cultura.

Ma letteralmente sobbalzai sulla sedia quando venni a sapere che avrei dovuto anche aprire una “Casa del fascio”; e che questa doveva essere inaugurata preferibilmente il mese seguente, il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma. Quest’ultimo incarico andava ben oltre l’attività di “insegnante all’estero”: avrei dovuto occuparmi di relazioni con le autorità locali, di stampa e di propaganda, in una parola sarei stato il rappresentante del Fascismo a Santander: non mi dispiaceva, ma capirete che rispetto al lavoro di insegnante, un incarico simile metteva chiunque con le spalle al muro; lo irrigidiva un po’, perché doveva incarnare in toto un’idea: attraverso me si doveva vedere l’Italia, Mussolini, l’Impero. Quell’Impero ambiguamente sentinella avanzata e retroguardia, spietato e civilizzatore, maschio e frivolo: per una di quelle coincidenze inevitabili e significative, il profumo per uomini Tabacco d’Harar (Harar era una delle più fiorenti città del nostro Impero) sarà ufficialmente presentato alla Fiera di Milano del 1940, nell’imminenza della guerra.

Amavo molto l’Italia, quel particolare tipo di Italia che si vedeva dall’estero, volevo bene al “Pelato” (aveva fatto tanto per me, e io tanto per Lui), non stavo lavorando per la chiesa di Adro, i frutti erano sotto gli occhi di tutti. Sapendo inutile ogni rimostranza, tenni per me le mie obiezioni e perplessità e accettai. Del resto mi sentivo sufficientemente vaccinato e scaltrito per non farmene sommergere.

A Santander avrei comunque lavorato da solo, avrei dovuto italianamente “arrangiarmi”. I risultati venivano dati per scontati ancora prima di iniziare a lavorare.

La città di Santander, che secondo l’ultimo censimento contava poco più di 70 mila abitanti, era ancora presa dall’euforia della “liberazione”. L’ingresso delle truppe italiane era stato un grande trionfo, con perdite tutto sommato contenute: 350 morti e 1676 feriti. Pochi giorni dopo il quotidiano dei nostri volontari cambiava la testata in spagnolo, El Legionario, per adottare definitivamente quella in italiano. La profezia-minaccia di Mussolini

Dove, quando, come non è - oggi - possibile dire. Ma una cosa è certa: certa come un dogma di fede, della nostra fede. Anche i morti di Guadalajara saranno vendicati”

trovava il suo più glorioso compimento.

Mi ricordo una gustosa vignetta apparsa sul «Legionario»: si vede l’esercito rosso che abbandona la città in fuga precipitosa; un miliziano, passando davanti al cartello stradale, corregge il nome di Santander in Santandarsene e in calce il commento: «L’unico… “santo” a cui i rossi si votano, quando fanno in tempo».

Ero attorniato dalla simpatia e dalla generale gratitudine perché il contributo italiano era stato determinante. Santander nel corso della storia si era meritata i timbres de gloria, cioè i vanti, di essere Muy noble, Siempre leal, Decidida, Siempre benéfica y excelentísima, qualità che aveva conservato anche al momento dello scoppio della guerra. La città non si era “sollevata” immediatamente dopo il 18 di luglio, si era mantenuta fedele alla Repubblica e con le Asturie e Bilbao aveva costituito un’isola rossa al nord.

Ma proprio durante quell’estate stavano cadendo una per una le città della costa cantabrica: Bilbao (19 giugno), Santander (26 agosto) e dopo la caduta di Gijón e delle Asturie, dal 19 ottobre tutto il Norte sarebbe stato in mano dei nazionali.

La città di Gijón corse incontro alle truppe liberatrici con mille bandiere salutando la Spagna Nazionale , mentre ovunque l’entusiasmo della folla esplodeva in manifestazioni deliranti, commoventi. Anche noi Italiani scendemmo nelle vie confondendoci con i giovani, i vecchi, i bambini, i soldati, con l’autentico popolo di Spagna a gridare i nostri potenti «¡Arriba España!» a cui facevano eco, cortesi e spontanei, ponderosi «¡Arriba!» all’Italia e al Duce.

Con l’auto di un amico spagnolo, percorsi un lungo tratto di strada costiera con l’intenzione al ritorno di visitare le grotte di Altamira.

In quei luoghi si era combattuto aspramente nelle settimane precedenti. Quali disastri: alle distruzioni dell’artiglieria si aggiungono i ponti fatti saltare, le borgate e i casolari incendiati per ritardare l’avanzata del nemico, ancora fumiganti sotto la pioggia.

Lontano, ad intermittenza, si udiva ancora il crepitio secco della mitragliatrice nell’opera di rastrellamento; sopra di noi, nel cielo nero, passavano col loro urlo lacerante, in formazioni perfette, i noti trimotori da bombardamento diretti sugli ultimi obiettivi; ogni tanto eravamo distratti dalle autolettighe e da gruppi di dinamiteros fatti prigionieri, ancora increduli e stupefatti, travolti da un così rapido succedersi degli avvenimenti. Quegli stessi che solo quindici giorni prima a Cangas de Onis avevano distrutto un ponte romano e un’antica collegiata, puro gioiello del romanico spagnolo.

E mentre ci avviavamo verso la preistoria e già cominciavamo a parlare di mammouth e di era glaciale, mi veniva da riflettere sulla rapidità inarrestabile dell’avanzata franchista, sul ritmo incalzante con cui si andava scrivendo la nuova storia della Penisola ed anche un poco quella d’Europa.

Controsensi umani, o non piuttosto, logica profonda?

La sede della “Casa del Fascio” a Santander era un grande appartamento al secondo piano di un palazzo ottocentesco al n. 33 del Paseo de Pereda , o Muelle, la passeggiata elegante sul lungomare, dai Jardines Pereda fino alla Darsena de Molnedo (detta anche Puerto Chico). A quel tempo il paseo era più stretto e i platani, potati ed allacciati come sanno fare gli Spagnoli, davano un’ombra gradevolissima.

Il salone al primo piano ospitò una volta anche Amedeo I Duca d’Aosta (il padre di Emanuele Filiberto e del Duca degli Abruzzi) per un ballo in suo onorenel breve periodo in cui fu re di Spagna (16 novembre 1870 - 11 febbraio 1873. Chiamato al trono perché le parti avverse non seppero accordarsi, aveva tutti contro. Gli Spagnoli gli avevano affibbiato il nomignolo di don Macarones primero) - dopo la sua abdicazione si ebbe in Spagna la I ª Repubblica (1873-1874).

Come a voler sottolineare il radicale rivolgimento della situazione politica, la “Casa del Fascio” dava lo sfratto alla Federación Anárquica Ibérica. Da un balcone all’altro era tesa una bandiera italiana con la scritta “FASCIO ITALIAN ”. Nostro era anche il mirador, cioè il bel balcone a vetrata.

Appena giunto a Santander mi presentai al governatore militare della città, don Candido Inchazo, persona piuttosto burbera e asciutta. Per le visite protocollari mi fu assegnato come accompagnatore il procuratore capo don Antonio Orbe.

Un pomeriggio, passando davanti a un bellissimo palazzo in stile rinascimentale, non potei fare a meno di far rilevare la sobrietà ed armonia delle sue linee. Era il tribunale, e il mio accompagnatore si ritenne in dovere di fare gli onori di casa invitandomi a visitarlo. Nell’aula principale si stava celebrando un processo importante: un tribunale militare stava giudicando circa quaranta donne, mogli o compagne di personalità del governo rosso. Al nostro ingresso la corte si alzò e ci salutò con molta deferenza. Fu l’occasione per calorosi indirizzi di saluto all’Italia contraccambiati da alcune mie sincere considerazioni sull’amicizia e unità di ideali che univano i nostri due Paesi. Ma sentivo su di me gli occhi inviperiti e pieni di odio delle donne sul banco degli imputati: sarebbero state certamente fucilate e vedevano in me, nella divisa nera che portavo, l’odiato fascista, la causa della loro prossima fine. Provai un profondo disagio, perché personalmente mi sentivo del tutto estraneo e non responsabile della loro sorte. Non pensavo che la guerra mi avrebbe toccato a tal punto. Col pretesto di essere attesi dall’ alcalde, pregai il mio accompagnatore di affrettarci all’appuntamento.

Il marchese De Pelayo, alcalde di Santander, ci accolse molto affabilmente; parlammo della prossima attività della Casa del Fascio e delle iniziative di collaborazione.

Il giorno dopo rendemmo visita al vescovo, don Emilio Equino Trecu, basco di Bilbao, e al governatore civile, don Augustín Zancajo Osorio. Nel frattempo il mio accompagnatore mi aveva informato che le quaranta donne viste in tribunale erano già state fucilate. Fui molto scosso dalla notizia e fu un pensiero ricorrente per tutta quella giornata.

Il governatore civile, proveniente dalle Canarie, aveva seguito Franco come ufficiale della Legione; il suo coraggio l’aveva spinto a azioni di estrema audacia, rimanendo ferito ben quattro volte. Come riconoscimento del suo valore e per dargli anche un’opportunità di riposo, gli era stata conferita la carica di governatore civile. Ma il suo spirito era continuamente inquieto e non desiderava altro che ritornare fra i suoi uomini al fronte. Vi ritornò infatti, nonostante tutti gli amici e anch’io avessimo cercato di dissuaderlo, ma pochi giorni prima del Natale 1938 cadde da eroe alla testa del suo reparto, come già eran caduti tre suoi fratelli «estirando el brazo derecho en saludo falangista y en la boca una sonrisa para su novia, la Muerte».

Bastò il nostro breve colloquio per darmi l’idea che fosse un idealista purissimo che sognava grandi progetti di giustizia e di progresso per il popolo spagnolo; metteva tutto il fuoco del suo ideale nella sua eloquenza fluente e efficace. A testimonianza della sua grande sensibilità e amicizia verso di noi, fra i molti episodi, mi sembra significativo ricordare che in occasione della morte di Gabriele d’Annunzio mi inviò un biglietto di condoglianze.

Mentre si approntava la nuova sede, ero alloggiato all’Hotel Mexico, situato di fronte alla stazione ferroviaria, a poche decine di metri dalla cattedrale, dal palazzo del Gobierno civil e dagli altri edifici pubblici. Per timore di un attentato, il governatore militare (don Inchazo) mi aveva assegnato una scorta di quattro guardie, che a turno sorvegliavano la mia camera.

Appena pronta la sede della Casa del Fascio, mi trasferii. In via del tutto eccezionale mi veniva concesso anche l’alloggio attiguo agli uffici; era una semplice camera ammobiliata, ma i colleghi delle altre sedi non erano stati altrettanto fortunati. Proseguivo alacre nel mio lavoro, in stretta collaborazione con l’avvocato Victor Díez Ceballos, il rappresentante del console a Santander; i mezzi e le attrezzature erano molto limitati: l’ufficio mancava persino di una macchina per scrivere. Bastarono i risultati del lavoro di quei pochi giorni per meritare la completa fiducia del barone Basile e perfino due righe di complimenti:

Mi congratulo per quanto Ella ha compiuto in così breve tempo […] Di Lei, come già Le dissi, ho la migliore delle impressioni. Ella ha un posto d’onore e son certo si farà onore.

Ma contemporaneamente fece licenziare la scorta, dicendo che gli Italiani non avevano motivo di temere alcunché. A mio avviso, almeno come misura prudenziale nei primi mesi, avrebbe fatto bene a lasciarla: il portone d’ingresso non era ancora stato sistemato. Come sorveglianza c’era solo il sereno, il guardiano notturno. Confesso che alcune volte, quando c’era mare grosso, fui svegliato da improvvisi rumori provenienti dall’ufficio, e sudando freddo andavo a controllare armato della pistola d’ordinanza. «Una volta o l’altra mi trovano morto ammazzato – pensavo tra me – ma almeno non potranno dire che ho avuto paura».

Il corso di italiano mi impegnava fin sopra i capelli: gli iscritti erano oltre cinquecento, dovetti istituire sei corsi di circa 100 allievi ciascuno. A causa della guerra le scuole erano chiuse. Un buon numero di esse era stato requisito per l’accantonamento dei militari e per essere utilizzate come prigioni; gli alunni e i professori delle scuole superiori si trovavano in molti casi sotto le armi. Per il corso mi fu concessa l’aula di scienze del liceo, perché era la più capiente.

Una delle cameriere dell’Hotel Mexico mi chiese se potevo assumere la madre come donna di servizio. Ci accordammo su orario e salario e fui molto soddisfatto della cura con cui svolgeva il lavoro, tanto che non mi sembrò esagerato triplicare il compenso che mi aveva richiesto. Oltre alle pulizie dell’ufficio, lavava e stirava la mia biancheria. Sentivo di potermi fidare pienamente di quella brava donna del popolo e le diedi le chiavi d’ingresso. Sapevo che il figlio era detenuto in un campo di concentramento perché comunista, e probabilmente anch’ella aveva le stesse idee; avrebbe perciò potuto approfittare dell’occasione, ma commossa dal mio gesto mi disse: «Yo la quiero más que a mi hijo», “voglio bene a lei più che a mio figlio”. Commosso a mia volta dall’affetto sincero di quella madre, volli interessarmi per migliorare la situazione del figlio. Correndo il rischio di essere considerato simpatizzante del campo avverso mi rivolsi al governatore militare. Questi assecondò la richiesta e fece trasferire il prigioniero in un battaglione di prigionieri lavoratori, dichiarandolo indenne da responsabilità politiche e penali. È proprio il caso di dire che Qualcuno avesse messo un coperchio buono alla pentola che con le migliori intenzioni, ma forse imprudentemente, avevo voluto fabbricare.

Per diverse settimane rimasi all’Hotel Mexico. Conoscevo ormai tutte le cameriere. Si meravigliavano che dicessi grazie ogni volta che mi servivano, gli altri ospiti le trattavano con poco riguardo. Carmen era una cameriera molto sveglia, ogni tanto si intravedeva attraverso lo sportello del passavivande. Sua unica pecca era di essere stata l’amica di un capitano della repubblica. Fu arrestata nell’autunno del 1938. Le sue compagne di lavoro vennero un giorno ad implorarmi di intervenire. Non potevo fare molto, Carmen era spagnola, un mio intervento poteva essere visto come ingerenza negli affari di un Paese sovrano. La mia perplessità era un argomento troppo debole per farle desistere: Carmen sarebbe stata fucilata all’alba del giorno successivo. Per fortunata coincidenza quella sera in cattedrale si celebrava la liberazione di una cittadina delle Asturie, certamente sarebbero intervenute molte autorità. Incontrai il governatore militare, don Candido Inchazo, che mi trattava con affetto quasi paterno. Gli parlai di Carmen e dell’imminenza della sua esecuzione. Certo stupito del mio interesse, mi chiese se fosse la mia amiguita. Risposi senza incertezza di sì. Non so se è lecito dire bugie a fin di bene, e se come si dice “una bella donna val bene un peccato”, non avevo tempo di stare a pensarci. L’intervento del governatore salvò la vita a Carmen, che venne condannata all’ergastolo prima, e poi definitivamente a 12 anni di carcere. Quando più tardi, all’inizio del 1939, venne emanato il decreto di amnistia, garantii per lei e così poté uscire di prigione. Ritornò al suo paesello nella provincia di Guipúzcoa, e di lei non seppi più nulla… nemmeno due parole di ringraziamento. Probabilmente non dovevo dire una bugia, nemmeno a fin di bene.

Appena si sparse la voce che anche a Santander si stava aprendo una Casa del Fascio, molti connazionali venivano a farsi conoscere e ad offrire il proprio aiuto. Sono ancora molto grato a Giuseppe Almagià, che in quei primi giorni mi fu prodigo di utili consigli e mi rese molto più facile ambientarmi e dare inizio al mio lavoro. Era in Spagna da poco più di un anno come direttore dell’Adriatica di Sicurtà.

Da questi primi contatti venni a sapere molte cose sulla Santander rossa, ma sarebbe meglio dire anarchica. E ogni volta mi stupivo del grado di indicibile crudeltà di quegli episodi, come se gli autori si compiacessero delle proprie efferatezze (già il Petrarca aveva definito efferati homines gli Spagnoli). Nei primi mesi del 1939 trovandomi a Barcellona, caduta il 26 gennaio, potei visitare io stesso una delle camere di tortura utilizzate dai comunisti: mi venne mostrato un cubicolo irto di frammenti di vetro; il prigioniero veniva fatto entrare e poi estratto violentemente causando ferite dolorosissime e orrende lacerazioni. A settimane di distanza si sentiva ancora l’acre odore di carne putrefatta.

Ancora impressa nella memoria, così come mi fu descritta, è la figura di Neila, un improvvisato e quasi analfabeta presidente del tribunale del popolo. Gli arbitrî e i crimini commessi gli meritarono l’appellativo di verdugo de Santander , boia di Santander. Più spesso questi tribunali del popolo e in generale gli uffici di polizia erano chiamati cheka . Solo in seguito seppi il motivo di un simile nome, quando ebbi fra le mani un opuscoletto di istruzioni per i giudici di quei tribunali: era scritto sì in spagnolo, ma stampato in Cecoslovacchia. A quel tempo la cheka del Neila era situata all’angolo fra la Cuesta de Lope de Vega e la Calle del Sol, non distante dalla Casa del Fascio. Non saprei dire se esiste ancora, perché nei giorni 15-16 febbraio 1941 un terzo di Santander fu distrutto da un furiosissimo incendio. Si calcola che quel “giudice” abbia mandato a morte più di tremila persone. Essendo deforme e repellente nel fisico, spesso mandava degli innocenti alla fucilazione, roso dall’invidia che la sorte avesse concesso loro un corpo senza imperfezioni. Allo scoppio della guerra riuscì a rifugiarsi in Francia, dove a Villa Chus sulla strada di Biarriz si godeva un esilio dorato. Il «Diario Montañés» del 2 e 3 luglio 1938 pubblicò un lungo articolo, La triste actualidad del siniestro Neila, dando notizia che il “commissario rosso”, si trovava nella prigione di Bayonne dal mese di febbraio in attesa di processo per furto di gioielli e rischiava una condanna esemplare.

Una delle vittime fu Manuel Díez Ceballos, fratello del nostro ex-console a Santander. Fu arrestato pochi giorni dopo l’insurrezione, il 26 luglio 1936 a Torrelavega, poco fuori Santander, dove rimase fino al 27 dicembre, giorno in cui fu tradotto alla cheka santanderina. «El día 29 del mismo mes fué asesinado, ignorándose los detalles de su muerte».

Rimanevo stupito e senza parola per il raccapriccio via via che venivo a conoscere episodi del periodo rosso. Dalle finestre del mio ufficio, prospiciente il mare, vedevo ad esempio alcuni palombari che recuperavano oggetti preziosi, armi e altra refurtiva gettati in mare in tutta fretta dai loro illegittimi possessori prima dell’arrivo delle truppe italiane. Ai sub che perlustravano il fondo poche miglia al largo dalla punta della Maddalena si presentò uno spettacolo ben macabro: decine di cadaveri rigonfi e ormai quasi irriconoscibili fluttuavano nell’acqua, trattenuti sul fondo dalla zavorra con la quale erano stati gettati in mare. Il giornale locale, il «Diario Montañés» del 26 settembre aveva riferito che alcune di queste salme, trascinate dalla corrente, erano state ripescate lungo le coste francesi. Anche nel tratto di mare di fronte a Malaga erano stati recuperati diversi corpi.

Il 29 ottobre fu dichiarato “fiesta de nuestros Caídos”: notai la coincidenza con il mio compleanno, senza immaginare che la parte più significativa del mio lavoro in Ispagna avrebbe riguardato proprio la memoria dei nostri caduti.

 


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