La prosa ritmica

 



[durata 11:26]

     Il ritmo sembra connaturato al linguaggio artistico, ma si tratta molto probabilmente di un ambito elettivo seppur non esclusivo.

     Esempi di prosa ritmica abbiamo spesse volte anche nel linguaggio quotidiano: ascoltando il cicaleccio di due vicine di casa che si parlan da sopra una siepe, la disputa acerba per uno stop non rispettato, gli slogan da stadio, i motti degli operai ribattuti su unisone latte perché qualcuno al palazzo li ascolti, la boutade sentenziosa che conclude un discorso, la cantillazione monodica di antifone e responsori in una funzione liturgica, e lo stesso inceder monotono del prete che spiega il vangelo…

     E sono esempi orali, estemporanei, come estemporanei sono i versi dei bertzolari nel paese dei Baschi, dei nostri improvvisatori d’ottave, o dei rappers di YouTube.

     Per il passaggio alla scrittura serve ancora la cura, la scelta, la lima.

     Dunque il ritmo, scandendo le parole con ordine, le martella agli orecchi perché entrino in zucca; perché abbian valore “pragmatico”: qualcosa che si fa, o a far s’induce, usando la lingua. E bene lo sanno i creativi che ogni giorno devon trovare le parole più adatte a far presa sul pubblico che poi vada in negozio e ti compri il prodotto.

     Ma nel ritmo è innato un pericolo: il ritmo incanta e seduce, impedisce che si capisca del tutto quel che uno ti dice. Perché nell’ascolto si segue di più l’accento ripreso, regolarmente scandito, modulato e flessibile che non le parole che han fornito le sillabe toniche, nel significato lor proprio. Già lo diceva Kazantzakis ( Odysseia X, 688-691):

 

L’arte è pesante, fratelli!
Più pesante della corona d’oro.
È più difficile combinare parole che eserciti;
le parole in battaglioni ordinati, invincibili,
che bisogna far entrare nel ritmo,
il nemico più grande del pensiero,
senza che si disperdano.

 

     È vero: il ritmo e la rima sono di grande ausilio alla vaniente memoria. Lo sanno i proverbi, le nenie, le filastrocche pei bimbi. Che già sanno che col tempo, mandate a memoria, quelle parole saran lievito in mente a mostrare di quanto son ricche, come siano a volte anche magiche e sappian parlare di tutto: del mondo e di te. E dunque son parole importanti, parole quasi segrete, da sfogliare a ventaglio una per una, e scoprir qual è la migliore, come una carta da gioco dietro le altre nascosta.

     S’è detto che noi Italiani parliamo per endecasillabi (lo dicono i titoli dei giornali), piuttosto direi che danziamo in ritmo ternario, nel fluire dei dattili, seguendo in rincorsa anapesti fuggenti; in questo alternarsi di passi or brevi ora lunghi ci prepariamo ad un elegante scambietto sospeso a mezz’aria: lì collochiamo la parola più ricca di senso, su cui scommettiamo la resa del pensiero che abbiamo da dire. Trasmettiamo sì le parole, ma insieme anche il timbro della voce che abbiamo, dei toni che variano, degli accenti modulati o tenuti, del volume di voce che diamo, della chiara pronuncia, di quel che al momento sentiamo. La voce, dunque, si fa gesto fonico, che giunge a chi ascolta, strumento critico per esplorar la sintassi, per studiare quella malta che tiene insieme una frase, finché chiara non ne emerga composita polisemia, che è propria dell’arte, in più gradi di senso ordinata, fino a coglier quel senso più in alto che la nuda somma delle parole da sé non darebbe.

     Perché il paradosso è che la scrittura non può darsi senza il suo naturale fondamento, la sua origine prima, l’oralità: la comunicazione diretta e irripetibile, la presenza degli ascoltatori. Secoli di tradizione hanno trasformato il mezzo di trasmissione e conservazione in fine (la scrittura, la stampa, diffondibili e commerciabili: l’Omero di oggi ha dda campà, vuol la pensione); e così l’Autore scrive per dei lettori, non recita per ascoltatori in carne e ossa presenti.

     La lettura richiede di ricostruirsi nella mente il suono delle parole e questa operazione ritarda e riduce la comunicazione, ma soprattutto la sterilizza dalle contaminazioni con il momento reale, presente, dal vivo; il lettore viene spiazzato rispetto al momento in cui la parola si crea, l’ambiente sociale che lo ha suggerito e richiesto. Ai banchetti con Femio o Demodoco, all’agorà di San Paolo, ai tribunali degli antichi oratori, alle scuole di eloquenza dei retori, ai comizi di piazza preferiamo la differita in divano, il tempo “libero” e residuale dopo il lavoro, la lettura come piacere e/o intrattenimento.

     Ed ecco un esempio di cui fra poco avremo discorso, imitando a mio estro il ritmo che il verso ha in greco, con vari espedienti ed effetti variopinti di fuochi artificiati, con la scelta ponderata ed arguta di un lessico adatto, per risarcire – almeno di un po’ – quel che nel travaso da una lingua nell’altra s’è perso.

     La prosa s’aiuta nel caso di schemi retorici che vorrebber celarsi: un’allitterazione che si cristallizza in endiadi, che si usa nel parlar d’ogni giorno e mari e monti promette; il titolo di un libro o di un film che scardini una terna ossidata (richiamo al film Sangue, sudore e polvere da sparo); una rima in parole di seguito: per legge d’entropia o d’allotropia l’omoteleuto armonizza fra loro forma e contenuto; ma basta pur anche un cenno allusivo (padre e signore richiama il libro di Gavino Ledda Padre padrone); una prolessi aggettival-predicativa per una messa in rilievo (i lor fazzoletti – nudo accorre) e troncamenti frequenti per rientrar nel numero esatto che fa fluenti la frase e le sillabe:

 

Dai loro appartamenti le ancelle scorgono la folla annerire,
sciolgon dal capo i lor fazzoletti, si riempie di gemiti il gineceo;
anche la regina raduna il coraggio, corre alla soglia
ed abbraccia senza un motto le salde ginocchia del proprio marito.
Ma questi, brusco, ordina alle donne di chiudersi al piano di sopra,
volge il capo, dà una voce e chiama suo figlio.
Nel bagno ode il figlio l’alto richiamo, esce dall’acqua
spinge da parte l’ancella che gli lavava dal petto sangue, sabbia e sudore
e nudo accorre, splendente a fianco dell’irruente padre e signore.

N. Kazantzakis, Odysseia I 197-205

 

     E mentre si ascoltano, si provi ciascuno a sentir come dentro fan eco le parole che si udran più avanti, si seguan nei meandri del senso, nei tentacoli che aggettan d’intorno, e – chi sa? – sarà dato goderne lo svolgersi calmo e pacato, terso e ordinato; parrà ci accompagnin sobbraccio pei giardini di Alcinoo, nella misura di un consono passo, perché “in tutte cose vuolsi modo servar” (Omero, Odissea xv 71):

 

     Le parole passan davanti come in rassegna, io le scelgo, le mischio, badando che stiano bene l’una dopo l’altra schierate.
     Più o meno come fa un uccello che contesse il suo nido, o chi annoda una rete, intreccia canestri o una corona d’alloro.
     O come fanno pur anco le donne di casa chine al lavoro, che preparano fili di vario colore ordendoli poi sul telaio in bell’ordine, seguendo il disegno che vedon nella mente preciso.
     E allora vedi sulla tela che prima era bianca: foglie d’acanto in festoni, convolvoli con campanule bianche, variopinti bei serti di fiori di campo, e ghirlande di tortile edera; uccelli che spiccano il volo o si chinano a bere da una coppa dorata, e agili gru che eleganti e leggere fanno all’intorno lor danze, e navi dall’esile scafo che solcan veloci le onde del mare impercorso… dando luce e materia ai propri pensieri così che anche altri li possan vedere e risbocciar come nuovi nella mente a chi guarda.

 

Iseo - 18 maggio 2010

 


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