Recensione a:

Òcio pompa! di Angelo Giovanni Trotti.
s.n. (Edolo, Tipografia Andreoli, 2010). - XXV, 248 p., [3] carte di tav. : ill. ; 21 cm

    

Ho appena finito di leggere le poesie raccolte in Òcio pompa . Non credo di aver mai letto una quantità di poesie in dialetto come in questa occasione. Ci vuole un po’ di rodaggio sulle prime, ma poi, aiutati anche dalla traduzione, il discorso scorre limpido e chiarissimo, con un’efficacia espressiva, un tono lirico e un ritmo che si adatta all’espressione e che spesso la condiziona.

Esistono dei temi ricorrenti, delle riprese di elementi, di quadri che si imprimono della memoria quasi come simboli. Non riesco a considerarli delle “ripetizioni”.

 

L’ efficacia espressiva deriva da un certo modo sentenzioso che quasi naturalmente il dialetto si porta con sé, spiccio in quel che vuole dire, con parole che una volta dette non vengono più ritirate, non vengono smentite, corrette; senza ambiguità di comprensione. La scrittura facilmente perciò diventa poetica, perché essenziale, perché ogni parola ha la sua necessità, perché ogni espressione è completa e conchiusa così come è scritta. Perché nella mente rifà la sonorità del linguaggio parlato, come si trattasse di una comunicazione reale. I temi provengono dal mondo reale, la lingua che li descrive ritorna a questo mondo reale aiutando a capirlo, a vederlo da un altro punto di vista, attraverso la lente dei sentimenti, apprensioni, attese, sogni, soddisfazioni di altrettante situazioni concrete. È scrittura “occasionale” e come tale, vera e circoscritta a un momento singolo. Essendo poi queste “occasioni” gli atti minuti e concreti che vengono ripetuti quotidianamente, queste descrizioni assumono un valore di norma, emblematico. E si imprimono nella memoria sia per la loro consueta ripetitività e “normalità”, ma per tutto il corredo umorale di sentimenti, aspettative, rassegnazioni con cui sono vissuti.

Si tratta dunque di una scrittura vera, perché parla della vita reale, anche quella invisibile dei pensieri, dei sentimenti, della fede, così come vengono percepiti e vissuti. È una scrittura di testimonianza, di memoria di un’umanità che altrimenti non potremmo conoscere; reale anche perché condivisa da un’intera comunità al di là delle differenze fra persona e persona. In questo dar voce a un’intera comunità sta il secondo livello della “poeticità”: le poesie non sono il frutto di esperienze individuali, troppo personali per essere condivise. Pur vissute e narrate da una singola persona (il poeta, l’aedo), le poesie ritornano patrimonio di tutti, perché il singolo condivide in tutto la vita di altri, perché ogni singola persona vive accanto ad ogni altra, ha occhi per tutti: ed è questa la principale qualità del vivere nella comunità.

 

Il tono lirico pervade tutte le poesie, anche quelle che sembrano più narrative: si sente infatti che la descrizione non è estranea ai fatti, ma i fatti si sono fatti pelle e vita del narratore e una volta assunti così vengono riversati in forma di parole sintetiche e ricche, perché riescono a richiamare la pienezza di contenuto che le hanno suggerite e di cui sono specchio fedele. Non è facile vedere la rete di relazioni affettive che legano le singole persone: ma è proprio tale evidenza che balza immediatamente agli occhi. Vedere le altre persone che vivono con noi legate fra loro da legami di parentela, amicizia, conoscenza, per il solo fatto di aver condiviso il sale, un minimo fatto quotidiano, dà la sensazione che la comunità sia un organismo unico, che si muove insieme, che è percorso dalle stesse ansie, aspirazioni, momenti felici e meno felici, che tutti sono accomunati dallo stesso sudore, dalla fatica, dalle piccole gioie di ogni giorno (il mangiare, il focolare, il ritorno a casa, l’incontrarsi per strada…) e durante le feste. La liricità è maggiormente evidente perché non è mai espressa con parole astratte, non è mai dichiarata, detta esplicitamente, ma descritta indirettamente da episodi, da piccoli quadri, da gesti che rimandano alle motivazioni del cuore. Così con le persone, e così anche nei confronti della natura. È l’interezza dalla vita stessa che prorompe dai sassi, dalle case, dai sentieri, dai monti, dagli alberi, dai fiori, dai ruscelli… e la consapevolezza di non essere estranei a quella vita, di non esserne i padroni: se si perde questo atteggiamento la natura diventa paesaggio da cartolina, merce, e le nostre mani diventano artigli da preda.

Un rispetto che dunque è anche umiltà, preghiera e ringraziamento: perché in fin dei conti è da questa natura che ricaviamo il nostro sussistere, che il lavoro non è una condanna, ma un collaborare, vivere in simbiosi, condividere il medesimo soffio vitale.

 

Il ritmo. Le parole sono legate una all’altra in frasi di senso compiuto, in versi lunghi o brevi che danno a queste parole peso via via diverso. Sono scandite da accenti regolari come i passi su un sentiero: non cioè il ritmo monotono e sempre uguale di una metrica di genere, ma che si adatta alle condizioni espressive. Con un pensiero in testa si progettano i vari punti di appoggio su cui posare il piede per giungere all’altra riva. Il verso ci fa ripercorrere lo stesso guado, ogni volta un poco diverso, finché alla fine tutto il percorso ha un senso più denso, fatto sì dei singoli versi, dei singoli guadi, ma anche dell’acqua, del paesaggio attraversato, del tempo incontrato; si ricompattano i punti salienti e si crea un concetto unitario, un messaggio preciso e squadrato come una pietra da costruzione, e la malta con cui unirlo alle altre. Il ritmo del verso non lascia nulla fuori, nessuna parola vien messa a casaccio, o solo per qualità “estetiche”, per assonanze foniche, per recupero d’arcaismi: ogni parola è necessaria al suo luogo perché il ritmo lo richiede. È ad un tempo un ritmo narrativo, sciolto e fluente, ma quando serve anche un ritmo che serra i ranghi, che batte il passo di marcia, che fa sentire la propria energia, la propria potenza. È in questa varietà che il lettore/ascoltatore ha il suo tornaconto, in cui risiede la godibilità di un enunciato che voglia definirsi poetico. È una lingua speciale, che si differenzia dal parlare comune, usuale, quotidiano. E il lavoro del poeta consiste esattamente nel fare da ponte fra questi due livelli, nel filtrare la lingua, purificandola da ogni banalità e superfluità: da una parte il linguaggio quotidiano e dall’altra quello di un ambito, sia pur artificiale, costruito, codificato, ma inequivocabilmente più alto, più nobile, a moralità intrinseca. Ma che attinge la propria ispirazione, che costruisce il proprio vocabolario, che affonda le proprie radici in quel quotidiano condiviso, nei legami affettivi con le altre persone, nel dialogo continuo con la propria emotività.

 

Non posso che dirti grazie per questo altro mondo che hai descritto: mi hai dato gli occhi per vederlo, mi hai insegnato il dialetto per capirlo.

 

 

Iseo, 12 ottobre 2011

 

 


Creative Commons License
Recensione a Òcio pompa! by Vittorio Volpi is licensed under a Creative Commons
Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License
.

On line dal 14 ottobre 2011

Copyright © Vittorio Volpi