Kazantzakis, Odysseia (Canto I, 74-207)

Nikos Kazantzakis, Ὀδύσσεια - Odysseia I, 74-205

 

Dopo aver ammazzato i pretendenti protervi nei suoi ampi cortili
appese Odisseo l’arco finalmente saziato                                                       75
e si avviò al bagno fumante, per lavare il grande suo corpo.
Due ancelle versavano l’acqua, ma appena videro il loro signore
emisero un grido, vedendo le sue membra fumare e il petto villoso
nero sangue addensato ancora stillava delle mani sue forti.
E caddero rotolando per terra le lagene (1) di bronzo sonanti.                           80
Sorrise il grande errabondo sotto l’ispida barba
e con un cenno di ciglia fe’ segno alle ancelle d’uscire.
A lungo godette del tiepido bagno, si distesero nel corpo
le vene quasi fossero fiumi e le reni godettero il lor refrigerio.
Il vasto suo spirito, dentro nell’acqua, divenne sereno e s’acquietò.              85
Una dolcezza lo pervase. Con olio profumato si unse, delicatamente,
unse il corpo inaridito dal sale ed i lunghi capelli.
Ritornò la giovinezza, rifiorí la carne dopo l’inverno.
Appese a borchie dorate, nella dolce penombra,
brillavano allineate le vesti tessute dalla casta sua sposa                                90
ricamate di navi veloci, di dèi e di venti furiosi.
Stese la mano bruciata dal sole e scelse con cura
la più fiammeggiante e con semplice gesto la indossò sulle spalle
ed ancor vaporante, alzò il saliscendi e la soglia varcò.
Furono abbagliate le ancelle nell’ombra, riverberavan di fiamma                  95
le travi portanti annerite dal fumo della casa paterna;
e Penelope, muta, pallida sul trono in attesa,
si volse a guardare, le ginocchia tremanti si sciolsero:
«Non è lui, Dio mio, che millantanni ho bramato!
è un drago dell’Ida (2) costui che cammina con passo per casa!»                      100
L’arciere perspicace intuisce l’intima ambascia
della donna solinga e piano parla alle viscere ardenti:
«Cuore mio, ecco la donna che curva a lungo t’ha atteso
che le aprissi le ginocchia serrate e insieme abbracciarsi nel pianto,
è la donna che tanto agognavi mentre lottavi col mare                                 105
gli dèi e le voci profonde della tua mente immortale».
Disse cosí, ma non ebbe sussulto il suo cuore in quel petto di forte.
Sbuffa ancor dalle nari il furore della recente ecatombe
ancora ha negli occhi la donna fra tutti quei giovani corpi
si vela la vista appena la scorge l’acuto suo occhio;                                    110
per poco, nel massacro infernale, di spada non l’ha trapassata.
Subito s’allontana e muto si pone sulla larga soglia di casa;
il sole, di già, cocente tramonta e riempie all’intorno
d’ombre rosa ed azzurre gli ànditi e il vòlto delle càneve (3).
Al centro, fuma l’ara nera d’Atena sazia d’offerte                                        115
e lungo i ballatoi dondolano, pallide, la lingua all’infuori,
lentamente, nel fresco di sera, le ancelle impiccate.

Sedati oramai osservano gli occhi la notte di occhi stellata
che scende dai monti come gregge dal vello ricciuto.
Come sogno in gocce di vapore scorre nelle viscere la mercede                   120
di un giorno d’uccisioni e si placa delle frecce il frullio;
e nella penombra si lecca le labbra la tigre sazia del suo cuore.
Dopo la gioia del bagno l’animo si rasserena, né piú
si volge a guardare il molto sangue, né piú lo agitano
i giri insidiosi dell’astuzia, né come scampi quella testa terribile                  125
di nuovo agli aperti pericoli che la cingon d’assedio.
Dopo averne tante passate, assapora in pace questo santo momento,
e senza pensieri, fresco del bagno, se ne sta sulla soglia paterna.

Nel fratempo si diffonde in ogni cortile la nuova inattesa:
è tornato il signore, cammina in incognito sulla terra dei padri                     130
e come torelli sulle mense ha mattato i ragazzi un dopo l’altro.
I padri dei giovani uccisi curvi sui loro bastoni gridano striduli
ad ogni porta battono le palme, radunan la gente;
gli uomini di fatica abbandonano sulla terra gli attrezzi,
chiudono gli artigiani le loro botteghe, salgono barcollanti                           135
i rematori, uscendo ubriachi dalle bettole del lungomare.
Nel vocío della piazza corrono a sciami di qua, di là, come api
che vedono nell’alveare una vitina sottile (4) depredarle del miele.
La vedova di un prode caduto per Elena su barbari lidi
leva le braccia senza carezze, che tanto han desiderato il marito:                  140
«L’abbiamo proprio ben accolto, ragazzi, il gàuro (5) macellaio!
Ci porta in dono uno scudo, una spada e tre fiale di veleno:
la prima da bere al mattino e la seconda all’ora di pranzo,
e la terza, Dio mio, la piú amara, quando ci gettiamo sul letto».
Lanciano grida le vedove, corrono fuori di casa,                                            145
annodano stretti i fazzoletti lor neri, battendosi il petto per l’ira:
«Maledetto tu sia! Tu che ci hai bruciato nel primo fiore di gioventú!
Le nostre case son diventate un deserto e sui giacigli son ragantele
mercè una svergognata puttana seduttrice di uomini!»
Battono i loro sterili seni, senza un figlio avvizziti,                                         150
ed una, presa da soverchio dolore, intona la nenia dei morti:
«Non perché è morto il bello mio lasciandomi vedova del suo abbraccio,
ma perché lasso è il mio seno e i capezzoli sono appassiti
senza dar latte, senza i dolci piccoli morsi di un figlio!»

Ferite segrete ed antiche nei loro cuori han sanguinato di nuovo,                  155
gli occhi s’intorbidano, si è oscurata la già fioca luce del sole;
vengon per mare dalle spiagge amare senza speranza
ombre esiliate, nuotando sulla groppa di nuvole oscure.
Fan cenni, muti, nel fosco della sera, come ragni imbozzolati,
strisciano veloci muro dopo muro, ed entrano porta dopo porta.                    160
Uno tocca leggero il proprio padre, se n’accorge e trema il vecchio,
uno getta la propria ombra sulle pietre sparse della povera bicocca,
un altro sul grembo della propria donna, grinzito come una mela appassita.
Hanno un fremito i dorsi accarezzati, si fletton le ginocchia,
s’addensa l’aria d’uomini morti, le vedove con respiro strozzato                    165
stringono vuoti gli abbracci e gemono dolci lamenti.
Un monco, cui le spiagge di Troia han mangiante le mani,
è salito su un masso, e attorno a lui fan frotta
altri monchi, e ciechi, e storpi, i mutilati della guerra mangiauomini:
«Compagni» ruggisce brandendo i moncherini                                                170
«il re è tornato, ma il suo corpo è senza ferite, non è menomato,
gli occhi ancora son due, ed ambe ha le mani, e le gambe… e la mente.
mentre noi come animali ci trasciniamo carponi per terra:
senza palme brancichiamo, senza piedi claudichiamo,
e bussiamo con orbite cave alle dimore dei signori!»                                       175
La voce si interrompe, la testa ricade sulle spalle amputate.
Gli dan la baia i compagni, lo stringono d’abbracci
e le vedove dimèntiche d’ogni pudore escono nelle vie a capo scoperto,
afferrano torce, corron per i vicoli, fomentano gli uomini:
«E bravi i nostri prodi coraggiosi, bavosi e lamentosi!                                      180
Eccovi fuso e conocchia, vestitevi voi di nero,
Avanti, bruciamo tutto! fiaccole alla mano, donne, addosso a lui;
questa sera il suo palazzo sarà in cenere e disperso nel vento!»

Nella calma della sera avverti, combattente rude del mare,
il tumulto della folla insolente e il bagliore delle fiaccole;                               185
tendi il collo, tendi l’orecchio, prende fuoco il tuo cuore:
«Come da mari impetuosi è scossa l’isola sotto i miei piedi;
qui dove contavo di trovare una fissa dimora per metter radici!
La salda connessione della terra si sfalda, s’è sfasciata la carena,
da una parte la turba (6) vociante, dall’altra i notabili,                                          190
il carico comincia a pesare, su dunque, e molliamo un po’ di zavorra!”
Disse cosí, e con passo di fiera alla caccia balza in mezzo alla corte:
le narici, le labbra, gli orecchi fremono come quelle di un cane da lepri;
la mano afferra, tastando di nascosto sotto le vesti
l’ampio gladio a due tagli, mille volte brandito;                                               195
e subito in cuor suo si rassicura, si rallegra.
Dai loro appartamenti le ancelle scorgono la folla annerire,
sciolgon dal capo i lor fazzoletti, si riempie gemiti il gineceo;
anche la regina raduna il coraggio, corre alla soglia
ed abbraccia senza un motto le salde ginocchia del proprio marito.                 200
Ma questi, brusco, ordina alle donne di chiudersi nelle lor stanze,
volge il capo, dà una voce e chiama suo figlio.

Nel bagno ode il figlio l’alto richiamo, esce dall’acqua
spinge da parte l’ancella che gli lavava dal petto sangue, sabbia e sudore
e nudo accorre, splendente a fianco dell’irruente padre e signore.                   205

(1) Brocca con collo stretto e grossa pancia (lagênes nel testo).

(2) Una credenza popolare vuole che le caverne del monte Ida siano abitate dai draghi Quaranta-braccia , alti iperbolicamente quaranta braccia, da qui l’aggettivo sarantàpêcho usato nel testo originale.

(3) Càneva, cànova “cantina, dispensa, mescita di vino”.

(4) Denominazione apotropaica della “vespa”; zônósbouro letteralmente sarebbe “cintola-trottola”, “che ha l’addome come una trottola”.

(5) Variante di giaurro ‘infedele, non musulmano’, nel testo gaûro.

(6) Nel testo tsourma ‘folla, moltitudine, turba’ che deriva dall’italiano ciurma , ma che a sua volta deriva di nuovo dal greco kéleusma ‘voce, canto ritmato del celeuste’ (lat. celeusma ‘canto dei rematori’).

 

Voce di Livia Castellini
dallo spettacolo-confrenza “In viaggio con Ulisse”
Iseo, 5 dicembre 1995.

 


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Nikos Kazantzakis, Odysseia I 74-205 (traduzione) by Vittorio Volpi
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