Ameraldi - 10.1 Iseo, Breno. Esine per sempre Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 531-552.


10.1. Iseo, Breno. Esine per sempre (parte prima)

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Le varie trascrizioni alla cancelleria del tribunale richiesero ancora alcune settimane. Finalmente giunse dal Provveditorato la nomina: ero assegnato ad Iseo dove avrei dovuto assumere servizio entro il 16 dicembre, con obbligo di residenza.

Cominciava così per me come per molti Italiani un periodo nuovo, primaverile. Non mancavano le difficoltà, soprattutto di carattere economico. Molte cose si erano chiarite o avrebbero avuto un esito diverso da quello ravvisato all’inizio e per il quale si era combattuto. Eravamo tutti animati da una gran voglia di fare, di costruire, di rinnovare.

Si era però anche attenti a capire quel si poteva fare e come il nuovo andasse fatto. Di vedere quale tipo di lealtà pretendesse il nuovo stato democratico. I “cartagloria” del Ministero erano finiti al macero senza remissione, ma i nuovi (novo cedat ritui) non c’erano ancora. Nei primi tempi mi sentivo provvisorio, una pecetta che doveva tenere nell’attesa di cure più appropriate; una cambra, un barbacane, uno sbadacchio che tenessero per un momento... e poi i grandi lavori.

Anche la sistemazione che mi ero trovato in Iseo rifletteva in tutto come percepivo la situazione. Alloggiavo in una stanza vicino al convento delle Canossiane, in via Duomo, giusto solo per evitare di perdere tempo nei viaggi e per non esser costretto da orari troppo gravosi. Non piantai un solo chiodo alle pareti, i libri rimasero nella valigia.

Ero cresciuto sotto il Regno d’Italia e ora tutto questo era finito, passato. In quattro e quattr’otto. Le mie sorelle continuarono a parlare di Jolanda, di Maria José; a poco a poco diventarono come nomi di dive o di cantanti, senza più la corona, senza più una casa reale: quella Casa, nel bene e nel male, era sinonimo di Italia e molti Italiani si erano riconosciuti e per essa avevano combattuto.

Ed ora píc e pàla, pala, piccone e buzzo buono a costruirci un’altra casa: esattamente come la volevamo, come ci serviva, secondo le nostre possibilità. Ci voleva un po’ di criterio: non dico con la groma dai bracci incrociati, ma almeno col piombo e la stadia. Perché non capitasse come a quel semplicione di Borno che deridendo un muratore che costruiva un muro usando il filo a piombo, gli volle mostrare che il muro si teneva in piedi legandolo stretto con la trèssa e la hü, “con la fune intrecciata” e non con uno spago sottile.

Le energie non mancavano: fu un abbrivo vigoroso e deciso. Quanto lavoro! C’erano sempre tante cose caotiche ed urgenti da risolvere. A sera ero stanco e sfinito, ma contento, e se c’era una festa, un po’ di baracca, correvo. E il mattino dopo, alle otto, puntuale in ufficio. Cominciai così a farmi conoscere anche a Iseo. Nacquero in quel tempo nuove e tenaci amicizie.

A dir la verità l’ufficio della direzione di Iseo era un po’ un bugigattolo. Ma di solito vi rimanevo lo stretto necessario. Non avendo segretaria dovevo far tutto da me, e bisognava scattare. Due o tre volte per mattinata – ancora non avevo telefono – bisognava andare al posto pubblico in piazza. Ne approfittavo per passare dal Comune: c’era sempre qualcosa da vedere, da chiedere, da decidere, e in altri uffici. Un po’ come l’asino del mulinaro che si ferma a tutti gli usci.

E quando era bel tempo, di nuovo in bicicletta lungo la statale del lago o la carrozzabile “delle Valli” in Franciacorta a visitare le classi: da Zone alla frazione Pedrocca; quando andavo a Montisola mi sembrava di andare in vacanza per un giorno. Di norma effettuavo due visite, una all’inizio dell’anno scolastico e una seconda dopo Pasqua. Desideravo in particolar modo che i nuovi maestri ingranassero bene, trovassero subito il giusto equilibrio fra disciplina e familiarità, fra le esigenze dei programmi e quelle dei bambini, che contemperassero l’entusiasmo giovanile con l’esperienza che potevano apprendere dai maestri più anziani. Soprattutto cercavo di indirizzarli a trovare una propria individuale personalità attraverso un modo di insegnare, di rapporto con gli alunni e le famiglie.

Il territorio coperto allora dai circoli didattici era molto esteso; all’inizio degli anni ’60 vennero ridimensionati: quello di Iseo fu ad esempio suddiviso in cinque circoli (Iseo, Marone, Cazzago S. Martino, Corte Franca, Adro). I maestri quasi duecento! Durante gli ultimi giorni dell’anno scolastico era quasi una maratona la compilazione delle schede di valutazione per ogni insegnante.

Per cinque anni percorsi in lungo e in largo il basso Sebino. Poi divenne impossibile spostarsi in bicicletta: semplicemente non c’era più il tempo materiale, le esigenze di ufficio richiedevano una maggiore presenza. Tutte le sedi ebbero degli interventi migliorativi e bisognava seguire i lavori; le riunioni collettive con gli insegnanti si fecero un po’ più numerose, perché le novità in campo didattico e pedagogico imponevano un continuo e serio aggiornamento. Finalmente nel 1951 acquistai la mia prima Vespa.

La politica era ormai una cosa lontana, anche se si aveva la possibilità di vederla un po’ più da vicino. I comizi erano un avvenimento che coinvolgeva e appassionava la popolazione, sia per la novità, sia perché non c’erano i mezzi di oggi. Dalla voce metallica dei megafoni, ma più spesso a pieni polmoni, i vari oratori arringavano le folle, le idee circolavano.

Me ne stavo un po’ in guardia. Mi piaceva la libertà di pensiero e di parola, tutti noi avevamo testa e spirito critico, ma la parola detta da una tribuna mi faceva ancora un po’ di paura. Era facile farsi incantare, credere ai discorsi dei vari oratori solo perché detti con voce impostata, variando nei toni e con gesti appropriati come istrioni da fiera (vulpis gannit); era facile bearsi nelle iperboli, invelenirsi di rabbia per le mille ingiustizie che ancora vi erano, aggricciando le labbra in isdegno. Mille parole venivan lanciate come variopinti cartigli alla folla; ignoti personaggi dall’alata loquela conoscevano la propria platea, sapevano come incantarla. Chi aveva vinto voleva anche stravincere: rossi e bianchi si raschiavano a sangue la gola, come corvi gracchianti di giubilo, ovantes gutture corvi (di nuovo Virgilio nelle Georgiche).

Ascoltavo per qualche minuto, scambiavo un commento col vicino, un motto di scherzo usando le parole allora di moda: trinariciuto o baciapile, poi mi rassettavo la cartella sotto il braccio e ritornavo al lavoro.

L’Italia stava voltando pagina. Per quel misterioso parallelismo che collega gli avvenimenti esterni e le inconsce reazioni, ormai prossimo ai fatidici quarant’anni, stavo anch’io cambiando. Diventavo più riflessivo.

Mi accorgevo di questo, quando una lettera rimaneva “in evidenza” per giorni, attendendo di trovare le parole giuste per una risposta – prima avrei risposto immediatamente.

Quando una medesima domanda, un pensiero, una qualche persona da soli ricomparivano non appena avevo un momento di requie: quando riagganciavo la cornetta dopo una telefonata, quando mi richiudevo alle spalle la porta dell’ultima classe visitata nella mattinata.

Occasioni esterne davano spunto per riflessioni o semplicemente altri pensieri. Chi avrebbe mai supposto nei nostri paesi un passato di interesse archeologico? A Plemo, durante gli scavi per una galleria del Canàl della Società Ilva (causa di molte silicosi), venne alla luce “un villaggio archeologico” addirittura preromano, si diceva allora.

Mentre Iseo durante la tarda estate del 1947 era in fermento per la ripresa del turismo e per un famoso premio di pittura, giungevano sul tavolo della Direzione le domande dei giovani diplomati. Il lavoro non era bell’e pronto, bisognava fare una certa gavetta; del resto - come si dice – anche il refe se vuole cucire deve passare dalla cruna dell’ago.

Le domande di supplenza erano molte rispetto ai posti disponibili. Ogni Direzione aveva una graduatoria interna. Dare la possibilità ai neodiplomati di un “assaggio” del lavoro scolastico, di un “tirocinio”, era un’esigenza irrinunciabile. Serviva a temprare le forze, a ridimensionare velleità, a diluire i fervidi entusiasmi nella pacata costanza del lavoro quotidiano, guidati dall’esempio dei maestri con maggiore esperienza. Forniva ai giovani la possibilità di rendersi conto di quel che significasse lavorare per lo Stato e di come funzionasse la Scuola in qualità di datore di lavoro.

La figura del Direttore Didattico riassume questi vari aspetti: è un educatore, è un funzionario dello Stato, è un maestro con esperienza, è un organizzatore, è la persona di riferimento per le pubbliche relazioni con le famiglie e le altre istituzioni pubbliche. Deve avere mille occhi per rilevare, preferibilmente in anticipo, i motivi che possono inceppare il buon funzionamento della scuola, possedere un’idea pedagogica coerente, un metodo didattico efficace. Infine, se vuole avere il sostegno dei maestri nella sua opera, deve essere rispettoso della loro autonomia didattica e della loro professionalità. Deve sferzare i lazzaroni, pungolare gli apatici, incoraggiare i volenterosi, lodare i bravi, aiutare tutti nelle difficoltà.

Ma non è un lavoro stressante: è molto vario, richiede competenze specifiche e la capacità di tradurre nel concreto della situazione locale norme elaborate altrove e necessariamente generiche. Richiede la capacità di allacciare e mantenere ottime relazioni con una varietà non indifferente di persone. Deve possedere qualità umane spiccate e doti morali esemplari. Con un po’ di istrionismo e di diplomazia, è vero, si riuscirebbe comunque a rappezzare rapporti e contatti, ma mancano d’anima, sono impersonali.

Mi è stata spesso rimproverata la mia “presenza”, nel senso che era forse eccessiva; che ho condotto anche le relazioni d’ufficio in un modo che risentiva di una forte impronta personale e perfino caratteriale.

Ringrazio chi mi ha mosso tali critiche, perché dal proprio punto di vista si ha una percezione non sempre oggettiva del proprio operato. Li ringrazio perché mi hanno fatto uno dei più bei complimenti che un educatore possa sentirsi dire: di essere innanzitutto una persona, di svolgere il proprio lavoro coerente a se stesso e non a un’immagine ideale, di lavorare in modo appassionato, cioè mettendoci l’anima e tutto se stesso, tutta la propria umanità.

Una delle maggiori preoccupazioni pedagogiche consiste appunto nel salvaguardare e promuovere la personalità degli alunni, perché l’originalità, l’individualità, la peculiarità di ciascuno sono valori assolutamente positivi. E perché dunque un bambino, un giovane crescendo dovrebbe appiattirsi su un modello di adulto stereotipato, “normale”, senza “presenza”? Ho l’orgoglio di voler pensare che coloro che hanno visto in me un direttore ad un tempo magnanimo e severo, accomodante e intransigente, una persona a tratti mite e furiosa, allegra e “fuori dalla [grazia] divina” possano aver tratto incoraggiamento ad esser se stessi, semplicemente così come il “tempo” delle emozioni che abitano il petto, fra burrasche e sereni, porta ciascuno ad essere giorno per giorno.

Quando il lavoro è fatto con passione, quando è connaturato alla propria persona, al proprio temperamento allora diventa un piacere, risarcisce della fatica quotidiana ancor prima di vederne dei risultati concreti.

Scambiavo queste mie considerazioni coll’amico Aragozzini, nominato preside a Verolanuova.

Il clima nella scuola si era notevolmente disteso. Per l’ultima domenica di febbraio del 1948 organizzai una gita magistrale a Pontedilegno (l’ultima che mi ricordassi risaliva al settembre 1936). L’occasione era stata offerta dalla gara internazionale di salto dal trampolino. Una gita è sempre molto utile per conoscersi fra colleghi e rinsaldare i rapporti personali. In luglio un’altra escursione di tre giorni sulle Dolomiti.

Ai primi di gennaio del 1947, si presentò in direzione una giovane maestrina, diplomata da un anno e mezzo. Durante questo periodo aveva svolto brevi lavoretti poco pagati. Le avevano consigliato di verificare col nuovo direttore la sua posizione in graduatoria. Contrariamente a quanto il direttore precedente le aveva fatto credere, si trovava ai primi posti, tanto che aveva buone probabilità di essere nominata supplente. Così fu, infatti: ai primi di febbraio iniziava la sua prima supplenza.

Appena quella giovane maestrina fu uscita dalla direzione, come per scacciare un pensiero che non volevo seguire scossi il capo impercettibilmente.

La rividi alcune volte prima delle vacanze. Durante l’estate lavorò come assistente alla colonia di Sale Marasino. In una riunione di maestri alla fine della colonia, incontrò casualmente l’insegnante di Pompiano che mi aveva denunciato: «Porti i saluti al suo direttore» le aveva raccomandato. Del tutto ignara dei precedenti, verso settembre capitò in direzione per assolvere l’impegno, sentendo quel nome, detti in escandescenze… – un fuoco di paglia, come al solito.

La maestrina fu molto colpita. Dall’espressione del suo volto innocente capii che dovevo un po’ moderarmi. Fu quello uno dei primi balbettamenti delle reciproche emozioni.

Qualcosa di molto speciale, sebbene ancora indistinto, mi aveva colpito e mi piaceva. Al solito così coriaceo e non propenso a svenevolezze ed anche per una certa dignità del ruolo, cercavo di non farci troppa attenzione. Inoltre avevo altre mire: in maggio avevo presentato domanda per un incarico presso le scuole italiane all’estero...

Il bel vestito a fiori con l’ampia gonna fino al ginocchio, il sorriso un po’ incosciente e sbarazzino che hanno sempre le donzellette di buona famiglia, quella timidezza da schiva cerbiatta che nessun incoraggiamento sarebbe mai riuscito a forzare, mi creavano l’immagine di un’inerme tortorella che doveva in breve acquisire pronta disinvoltura.

Sarebbe un peccato dire che non fosse anche bella. Ma non fu la bellezza a colpirmi all’inizio, furono i modi.

Un tempo si diceva che l’amore fosse un monello dispettoso che devastava il giardino ben curato della nostra vita.

Per un attimo si guarda furenti e attoniti al caos. Ma poi, passata la buriana, con meraviglia si colgono ad una ad una le mille novità; riconoscenti a quel bricconcello incorreggibile che rimesta la vita e i pensieri. Non c’è dicco che tenga al tempestoso fiottare del sangue nel petto, non c’è ozio, cura od interesse che possa distrarre la mente dal biondo mar degli aurei pensieri che d’improvviso la solfatara dentro nel cuore fa ribollire quando meno l’avremmo previsto.

«Come farò?» pensavo tra me. «Sono a volte così insopportabile, scorbutico, un vero bulldozer ... ci vuol poco ad offendere le persone, a umiliarle. So che in fondo sono buono, ma quando mi saltano i cinque minuti – non di più: A chi prèht la hàlta, prèht la bàlca, “chi tosto s’adira, tosto si placa” – travolgo tutto e tutti, senza distinzione; è il mio carattere, divento incontrollabile, non ascolto ragioni, sono persino paonazzo nel volto. Accidenti a me! Ecco, penso che l’equilibrio umorale sia stato sempre il mio punto debole. Ho una maledetta paura di farle delle scenate da pazzi e poi pentirmene da perfetto coccodrillo! Mi conosco, capiterà; ci vorrà una santa pazienza con me. Lei è l’unica che possa pian piano cambiarmi, la amo anche per questo: perché m’insegnerà un po’ di moderazione – so già che non l’ascolterò, che farò sempre di testa mia... ma l’avermi sopportato le sarà ascritto a gran merito».

Ci volle del buono per ammettere a me stesso che mi stavo innamorando. «Chi, io?» L’amore non viene a comando e in terreno favorevole mette radici. Virgilio, al solito, la sapeva lunga: Omnia vincit amor, ragazzo mio! Il dubbio d’esser diventato pazzo tutto ad un tratto mi passò per la mente, ma non andò oltre un peregrino sospetto.

Il pensiero ricorrente sempre mi riportava a lei, e cantavo fra me un’aria della Bohème «O soave fanciulla», mi inventavo frasi solenni: “È bello ciò che s’ama”. E così giorno per giorno – gutta cavat lapidem “la goccia scava la pietra” – ero immerso fino al collo nelle panie d’amore. Come tutti, avevo vissuto i grandi amori di un giorno solo. Occasioni non me n’erano mancate, e “mambrucche”, come si diceva allora, un po’ ovunque. Ma questa celeste sbarbina donde veniva? Forse proprio dal cielo? Pensandomi vicino a lei sentivo che dovevo esser diverso e più buono; e lei mi dava, al solo guardarla, indicazioni preziose. Pur rimanendo quel che ero da sempre, sentivo nell’intimo una metamorfosi in corso, e apprendevo da lei il modo d’esser migliore. Amor sementa in voi d’ogne virtute (Dante). Sarei stato all’altezza delle sue aspettative di felicità?

Mi sentivo condegno d’un magnanimo Cesare il giorno dell’alto trionfo, non tanto per lo stuolo delle legioni schierate, delle nazioni acquistate all’Impero, ma per l’atmosfera augustale ed ovante in cui ormai ondeggiavo, in mano la palma d’una grande vittoria su me, ansante nel petto d’una rarefatta e matura eccellenza. La sorpresa inattesa d’un alloro superbo per quanto avevo negli anni durato.

Avevo l’impressione di essere come un premiato, per esser stato semplicemente quel ch’ero io stesso; per essermi tenuto, con un orgoglio di cui con misura gongolavo tra me, la tecca d’esser un caparbio “camuno”, a volte eccessivo agli occhi di altri, come fossi un carbonaio d’Acarne, «testardo e piccoso» come un Pinocchio ancora di legno.

E un giorno, fra me, chiesi alla vita: «Chi è il padrone: tu od io?» Io avevo altri progetti, volevo sentirmi libero, volevo fare innanzitutto di testa mia, a costo di sbagliare, per esser contento di me; e la vita mi prendeva in contropiede conducendomi allo stesso traguardo per scorciatoie impensate, senza attendere la mia approvazione.

Come un elefante in cristalleria – a proposito, ero diventato paffutello nel viso e un poco aumentato di peso, segno inequivocabile di sereno benessere –, avevo timore di urtarla coi miei modi fin troppo bruschi e speditivi. Aveva una grazia naturale, un garbo elegante che le rubavo con gli occhi. Cominciai ad amare la levità, la leggerezza: non usavo più il nero pugnaletto della Milizia, ma il coltello d’argento dei dolci. Mi aveva preso sul buono, mi aveva colto sul morbido, come si poteva resistere? Non sapevo d’aver sortito dalla natura quelle doti nascoste, lei era andata a scovarle e me le aveva messe lì sotto il naso. Stupivo del miracolo, delle meraviglie della Provvidenza divina.

«Due cuori e una capanna»; ecco le “borghesi” domestiche gioie, che avevo sempre tenuto lontano con un sorriso di sufficienza, come non fossero adatte per me.

Ora che l’ipotesi remota di accasarmi era così vicina, vedevo quell’eventualità sotto una luce del tutto diversa. Entro le quattro pareti di una casa immaginavo la mia nuova “presenza”: affaccendato e d’impaccio in cucina, chino sul tavolo a completare qualche pratica urgente o rispondere ai saluti degli amici, in poltrona a leggere un libro. E lei che gioviale gironzola in casa intenta ai mestieri, che mi vedo vicina a preparar per domani una nuova lezione; ci scambiamo teneri sguardi, sorrisi e parole. Quasi senza badarci, ci tendiamo le mani sul medesimo tavolo, avvolti da un magato silenzio, giocando a toccarci in punta le dita. Sentiamo presente il gran bene fra noi, le accarezzo leggero le onde fra i capelli fino alla nuca. Lei con un buffetto alle gote mi dice del diavol Barbariccia che sono: birichino, birbante e buonalana, e fa il gesto di respingermi con la formula magica, colpendomi le spalle con piccoli pugni: Papé Satàn, Papé Satàn aleppe. Ed io di rimando, ricordandomi d’un tratto il nome della moglie del diavolo: Aiuto, la Versièra mi vuole mangiare! e me l’avvinghio al petto in un abbraccio tenero e lasco come se al contrario fossi io a volerla mangiare per farla ancora più mia; e m’accorgo d’esser intorcinato di buono nei vincigli dell’amor che le porto. Sono felice.

La differenza di anni non era trascurabile. Tolta pure la parentesi dei sette anni all’estero e degli anni di guerra, parentesi che per magia ora si chiudeva, la differenza persisteva. Ma io mi sentivo ringiovanito, gagliardo e intrepido, come uno stambecco dei bricchi.

Andavo chiedendomi di lei: aveva forse morosini che le sciamavan d’attorno, al confronto potevo cominciare a sentirmi bacucco. Per lei dovevo essere fuori questione, anche fisicamente. Per un po’ avvertii il suo rifiuto.

Ma verso di lei ero attirato come da un magnete. Una lunga nostalgia, che non sapevo d’avere o latente da anni, si risvegliò. Ad ogni incontro, come cantano i madrigali, quello stesso volto che appena intravisto spegneva la sete, rinasceva come Fenice durante l’assenza dalle estinte fiamme e annunciava nuova arsura e tormento.

Arrossivo a certi pensieri che mi passavano in testa come òra lacustre mentre distratto mi radevo il mattino; la docta ignoratia del corpo aveva irreprensibili fremiti, sussulti virili che mi facevan sentire coi piedi ben piantati per terra, per metter forse radici e dare a suo tempo bei frutti, chi sa? Mi lasciavo condurre da tali pensieri, come un gioviale capretto che saltella giocondo pei prati dell’alpe, non adombrato da inverecondi timori, percorso nei vasi riposti da linfe vitali. Un pudore spontaneo mi fu norma di vita, un tatto da caballero nei gesti, una casta contenuta modestia nello scambiarci, ilari e liberi pur noi, la meraviglia graziosa dei fiori sbocciati alle brezze sul nostro èbrio prato d’aprile, la gioia nel cuore alla festa del maggio.

Mi ricordavo di un’antica formula di matrimonio d’inizio Ottocento pronunciata girando attorno ad un albero, e finalmente ne comprendevo tutto il senso e la saggezza:

Albero mio fiorito,
Tu sei la moglie io sono il marito.
Albero dalle foglie
Tu sei il marito, io sono la moglie
.

Mi scoppiava il cuore. Scoppiava di gioia. Aveva su me l’attrattiva delle primizie proibite che da ragazzo adocchiavo furtivo nei campi, mm!, la stessa dolcezza. Innamorato cotto, smanziere patocco, imbertonito fin sopra i capelli. Povero me.

Ma un giorno, la lusinga di un ultimo suo sguardo sottecchi prima di svoltare ad un angolo mi fece convinto che qualcosa in lei fosse mutato. Era stato un vaglio severo, una difficile prova dell’arco, la freccia della mia tensione verso di lei attraversò precisa e sicura le dodici scuri che mi avrebbero tagliato la testa. Capii perché gli innamorati intagliano nella corteccia dei platani un cuore trafitto.

Avevo finito di essere emigrante, basta con gli amori fugaci, basta con le struggenti nostalgie, le cupe malinconie. Alle spalle la fiera burrasca della guerra. Finalmente un lavoro mio. La pace del Sebino pian piano leniva il rodìo dei travagli passati.

Come da ragazzo per gioco camminavo su una rotaia lungo i binari dal Pùt de l’Ói anfìna ai Botér e allargando le braccia per farmi leggero sembrava il mio passo una danza di gru, simile in tutto all’antica di Tèseo appena sbarcato sul litorale di Creta, così ora – passati quant’anni? – riavvolgevo in gomitolo il filo di Arianna, avendo trovavo la via per uscire dal labirinto dei miei stessi desideri e pensieri, dopo aver camminato lungh’essi buon tratto in equilibrio precario.

Amavo i suoi occhi, come lei era attratta dai miei azzurrissimi. Quanto mi piaceva il suo sorriso, così tenue. Rimanevo incantato a guardarla, provocandole un certo imbarazzo, finché abbassava lo sguardo. Poi mi prendeva teneramente una mano. Mi guardava muta negli occhi... Mi confondevo. Le accarezzavo i capelli, naufrago in quelle onde. Ero meravigliato. Mi avvicinavo alle labbra una mano per poterla baciare. L’avrei mai conosciuta? Dove mi stava portando la sua freschezza, la forza della sua vita in boccio, il suo timido aprirsi, quel certo ritrarsi e poi di nuovo farsi vicina. Non mi riusciva di fare il duro con lei. Non le trovavo un difetto. Come flautava le parole! Solo dolcezza, boffice grazia, un’infinita vaghezza, una soave bontà. Un bigiù.

Con lei entrò nella mia vita di impenitente homenhù, “scapolone”, il rinnovamento, la giovinezza, i vent’anni di un tempo, una nuova energia. Poche volte, penso, è dato rifarsi una vita, ma se càpita...

Anch’io, a mio modo, avevo trovato la mia America, la mia Liberazione. Per me fu una rigenerazione.

Scendendo in treno da Esine verso Iseo, sulle nuove littorine, una volta mi sorpresi a guardare nel vago la distesa variamente increspata del lago fino alla sponda di Lovere e poi d’un tratto vidi il mio volto rispecchiato nel finestrino quando dopo Toline s’imboccò la galleria del Trentapassi. Era un volto disteso, contento, sorridente. La chiamavo coi vezzeggiativi più teneri, sebbene non conoscessi molti nomi di fiori; ma più spesso Ranì . Lei mi stava cambiando la vita e non facevo resistenza. Per una volta non avevo piani, sarebbe andato tutto a puntino. La mano del destino stava giocando a lippa con me: il colpo era già stato vibrato, seguivo con gli occhi il pandolo nella sua alta parabola, pronto a coglierlo al volo.

Lei era dolce, docile, deliziosa: non che per ciò mi fosse facile gioco. Semmai ero io trotone basito al suo amo, leprotto allocchito alla malìa del suo boopide sguardo (encantadora, mi sorprendevo a ripeter ebetito tra me ricordando la Spagna ), ape attirata al redolente suo nettare, blandito alla pania dei molcenti suoi lezi, mamo intenerito sul clivo di bambagiosi bei daddoli, ghiotto dello spettacolo beante dei suoi vezzi graziosi; goffo nei modi e bazzotto nel fare, come è il lindo cuor d’un giovanetto, che palpita trepido al primo dubitoso suo amore; polito nell’animo come vergine mammolo alla novella calugine. Così ella, Ebe qui in terra, mi rinnovava la vita, così bevevo alla fonte dell’eterna giovinezza.

Le ero molto riconoscente, a lei dovevo il mio profondo cambiamento. Mi ero svecchiato di molte cose che cominciavano a diventarmi zavorra e nello stesso tempo mi dava un’aderenza mai provata alla vita, al presente, come fa la resina di Colofone passata sui crini perché l’archetto “tenga” sulla corda una nota più vibrante e sonora.

Anche ai suoi occhi non ero più quel “vecchio” che aveva visto la prima volta. Lei riusciva a vedermi nell’anima. Mi aveva messo a nudo a me stesso e scoprivo con ammirata sorpresa la naturale bellezza dei sentimenti sinceri.

Ebbro di quella dolce speranza che il filo delle parole via via dipanava; abile tessitrice di un legame tenace, di un dialogo fittamente intrecciato, di quell’ampia tela, variopinta e rigonfia che ci avrebbe fatto da vela sul nostro comune trabaccolo.

E se lei m’adorava, fatta certa nel cuore d’una promessa in me vista, d’esser libera e felice, solo per reverente timore non ardivo a mia volta di stimarla per dea, ma di certo toccavo con lei i limiti dell’umana natura e ventura, vedendo con chiara evidenza quanto il gran bene che volevamo di noi ci avvicinasse al gran Bene, facendoci ogni ora più a lui somiglianti, vivendo al presente di quello spirito buono che trascende qui in terra le nostre opere e i giorni, sentendo nel petto piano piano montare il levame segreto che fa bella e divina la vita.

Forse era proprio così, con una forte emozione, con un grande amore, che doveva logicamente, spontaneamente concludersi la lunga parentesi del fascismo: era stata la mia vita, la mia fede, ma ora la vedevo tanto lontana: il nuovo del presente mi assorbiva completamente, anima e corpo. L’orizzonte si era ristretto al mio immediato lavoro, ma le idee, i progetti, le possibilità di iniziativa si erano moltiplicati. A Roma non c’era più “nessuno”, il governo non giungeva alla varia minutaglia quotidiana di una direzione didattica.

Ci “parlammo” per oltre un anno. Capii fino in fondo il significato di quella parola, capii che era un fatto , che dal nostro effettivo parlarci traeva autonoma vita. «Sei la mia felicità» un giorno le dissi. Si era lungo l’argine del Grigna, verso i Giólcc. Una canzone di Vittorino Ragazzi descrive quei momenti, comuni a tutta una generazione:

Chèle sére, chèle sére de alùra, ói mé
so le rìe de la Grìgna a bracèto, ói mé
quàte ’ólte i ó pensàde finùra, ói mé
chèle sére, chèle sére d’amùr.

Ci volle del tempo per trovare una lingua comune, per imparare ad ascoltare, per abituarmi al dialogo, per esplorare la reciprocità.

Mi colpì un accostamento e ipotizzai una spiegazione a mio uso e consumo del perché si dicesse «l’uomo è cacciatore»: Nembrot che ebbe il mal coto “l’idea funesta” (Dante) di innalzare la torre di Babele, da cui poi derivò la confusione delle lingue, è lo stesso personaggio che la Bibbia definisce robustus venator “grande cacciatore”. Col tempo, sempre meno frecce del mio arco mancarono il bersaglio, sempre meno parole rimasero inascoltate. Ma il fiero cacciatore fu catturato dalla stessa preda che aveva inseguito. Come già era successo alla cultura latina, che aveva preteso di conquistare la Grecia (Graecia capta, ferum victorem coepit).

L’esser vicini creava un anello, un flusso di sensi e pensieri, un’aura di sensazioni: il legame teneva. Insieme scoccava qualcosa (la scintilla di un fuoco che nasce e riluce, la freccia di una tensione che porta al buon fine, il sonoro riverbero del rintocco d’un’ora che riempie lo spazio), qualcosa in più della somma elementare delle nostre esistenze. Inebriati da quell’etere d’angora, nella nuova ecumene entro l’orizzonte degli abbracci terreni, ospitavano un dio le anime nostre, ardevan del Bene immortale i nostri poveri cuori, affacciati al cielo infinito della vita al di là.

Col tempo fui accettato anche dalla famiglia: in questo giocò molto la volontà decisa di Margherita. La mamma era molto buona ma severa, il papà, invece, una pasta d’uomo: Margherita era la sua coccolina.

Dal 30 agosto al 4 settembre 1948 partecipai ad un convegno a Parma sulla scuola pluriclasse. Durò una settimana intera. Erano presenti delegati di tutti i provveditorati d’Italia (circa 80); molto modestamente, rappresentavo quello bresciano. Gli interventi, le comunicazioni si svolgevano al termine della giornata dei lavori, dopo le cinque di sera, quando ormai si era stanchi. Parlai il martedì sera – si erano fatte quasi le sei – illustrando La scuola pluriclasse in Spagna, riprendendo alcuni dati dall’articolo apparso sul Supplemento pedagogico di «Scuola Italiana Moderna» nel numero del febbraio 1940. In quell’occasione rividi il caro Marco Agosti che all’epoca insegnava all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed era un pedagogista affermato e ascoltato (un suo intervento fu molto apprezzato e divenne un ordine del giorno del Convegno stesso).

Dalla primavera del 1949 seguii anche le vicende della scuola professionale “Romanino” istituita in Iseo, la reggenza durò solo un anno o due. Mi battei inoltre contro l’Amministrazione Comunale per impedire la vendita dell’ampio cortile dell’asilo. Nel 1998 hanno tagliato i platani maestosi: ho udito sin qui il pianto dei bimbi una mattina del mese di maggio.

Ci sposammo il 4 giugno 1949 nella chiesa di Sulzano. Al traguardo del matrimonio fui preceduto di qualche settimana da mia sorella Garitì. La mamma era contenta per noi, ma nello stesso tempo soffriva per non averci più in casa: i soliti dilemmi delle mamme. Le nozze furono sobrie, celebrate in clima di festa e di armonia. Margherita era splendida ed io al settimo cielo. Durante il brindisi, il dottor Bonettini ci rivolse un messaggio paterno e affettuoso:

In questo momento di commozione e di felicità alzo il calice e brindo all’amico Uberto. […] Dio ha concesso all’uomo la sua compagna, perché gli desse il conforto, la dolcezza ed il sorriso.

E tutti agogniamo alla stessa meta. Dal Manzoni a Tolstoi, agogniamo il fico che sorpassa il muretto dell’orto, la polenta fumante sulla tafferìa, e una nidiata di bimbi intorno, di testine, bionde brune e ricciute, di bimbi che mandano al cielo piccole grida di gioia e di vita sbocciante.

Quale mistero la vita! Anche nelle cose più piccole, più banali, è una meraviglia, dal pulcino che rompe il guscio dell’uovo al nascimento dell’uomo.

Quale mistero, per i vecchi che in un vicino tramonto, pare diano un desiderio più vivo di nuovo tepore e di luce, quale mistero per gli uomini giunti nel meriggio della loro esistenza, quale mistero per i giovani che guardano alla vita nelle lucentezze albeggianti dei primi anni. […]

Caro Uberto, io ti ho conosciuto fanciullo, ho seguito la tua vita passo per passo, conosco le tue doti di intelletto e di cuore.

Sono realmente commosso in questo istante nel porgerti gli auguri più cari, più fervidi, più affettuosi.

Nei momenti di tristezza e di avvilimento che tutti dobbiamo purtroppo affrontare, ricordati del tuo vecchio amico che ti vuol tanto bene.

Ricordai anche il papà Emilio, che mi sentivo vicino più che mai. Lessi un suo originale sonetto in settenari:

Io amo il sole e le stelle
E le altre cose belle;
Amo i neri capelli
E gli occhi neri belli.

Su le labbra all’amata
Amo posare il bacio;
Cinger col forte braccio
La vita all’adorata.

Le frasi dolci amo,
Pure i sospiri bramo;
Mi cerco le carezze. 

Che donano l’ebbrezze.
Cerco sfuggir il dolore
E vo dietro all’amore.

In viaggio di nozze visitammo Firenze, Roma – dove ci aspettava l’amico ciliegia, il dottor Gino Ceriani: a lui mandavo la “Cesarina” (il caffè) da Tunisi – e poi Capri. Girammo sull’isola in lungo e in largo, un barcaiolo ci portò dappertutto. Fu un viaggio molto romantico. Così doveva essere, del resto.

Per i primi tempi abitammo ad Esine, finché non trovammo un appartamentino in affitto che dava sulla Piazza Garibaldi di Iseo: cucina, camera soggiorno, in quest’ordine, ciò vuol dire che per andare in soggiorno bisognava passare dalla camera. In casa c’era solo l’acquaio, non una stanza da bagno vera e propria; già era un lusso avere il rubinetto dell’acqua corrente. Col pretesto del bagno settimanale si aveva occasione di ritornare spesso a Esine. Abitammo lì otto anni; nel 1956 traslocammo in una casa più grande, ma anche più fredda. Risparmiavamo molto, pur non facendoci mancare il necessario e non rinunciando a frequenti viaggi e lunghe vacanze al mare. Cosicché, appena si presentò la possibilità, costruimmo una nostra bella casetta, una “casa Fanfani”, con un bel prato attorno, in via San Vigilio (il patrono di Iseo). Era il 1960.


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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010

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