Ameraldi - 10.3 Iseo, Breno. Esine per sempre Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 580-600.


10.3. Iseo, Breno. Esine per sempre (parte terza)

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La vigilia di Natale 1961 – era di domenica – si festeggiò il cinquantesimo di sacerdozio del parroco don Gian Battista Pedrotti. Che cosa non si meritava quel sant’uomo! I giovanotti avevano creato una galleria con le frasche di pino dalla canonica alla chiesa, spalato la neve, addobbato a dovere. La Schola cantorum diretta dal curato don Bontempi cantò la Messa a sei voci di Cesare Franco, con grande solennità e gravità. Questa Messa veniva di solito cantata a San Paolo e nelle feste “grandi”: penso che risentendola oggi farebbe scorrere non poche lacrime di nostalgia a molti Esinesi.

Mi fu chiesto di dire due parole al termine del banchetto offerto all’asilo. L’occasione stessa mi distrasse fortunatamente dal badare troppo alle parole che dicevo, altrimenti mi sarei certamente commosso: trent’anni di parrocchiato a Esine, un buon pastore per tutti, – e scherzando: – di pecore bianche e pecore nere, di caproni, agnelli e asinelli, che con il suo esempio e la sua bontà ci aveva indicato la via che conduce ai pascoli eterni. Devo ammettere, mi piace conversare e intrattenere gli ospiti con facezie ed aneddoti, ma non sono un grande oratore, soprattutto quando devo parlare di persone che mi hanno toccato il cuore e a cui devo molto, il meglio di quel che mi riconosco.

Nel pomeriggio si svolse presso l’Oratorio una ben riuscita “Accademia”.

Il 27 gennaio 1962 fui nominato Ispettore effettivo a Breno.

Subito mi giunsero le congratulazioni degli amici di «Scuola Italiana Moderna»:

La tua promozione a ispettore, attesa e meritata, è stata appresa con particolare compiacimento dalla Famiglia di . Direzione e Redazione unite ti inviano le più cordiali felicitazioni nell’augurale pensiero di quanto il tuo zelo intelligente saprà realizzare per il bene della scuola; al quale sono dirette le comuni speranze.
V. Biloni,

“Con gioia partecipe e stima superiore” Marco

“Con affettuoso augurio nella comune gioia” Mario Cattaneo

“Con fraterno, alto affetto, tuo Vittorino. Un reverente ricordo per la Mamma, Signora e gentili Sorelle”

Mi fece però oltremodo piacere anche la lettera di don Giovanni Melotti, parroco di Cogno (15 marzo 1962):

Appena letta la Sua Circolare del 9 febbraio u.s. mi è venuta spontanea questa frase: – Finalmente uno dei nostri che ama veramente la Sua Valle –.

Ero sicuro che Lei avrebbe scelto la nostra disagiata e dura terra, perché quando una Professione la si svolge non come mestiere, ma come missione con intelletto d’affetto, si pesano di più le necessità d’ambiente, che le comodità personali.

Io La ringrazio, L’ammiro, L’imiterò.

Non so quanto potrà valere la mia collaborazione; comunque sarà sempre pronta, cordiale, oggettiva.

Nell’augurio che quanto, in Lei mente e cuore dettano per il bene della scuola camuna, possa essere apportatore di validi ed efficaci frutti...

E di Gaspare Aragozzini, quasi novantenne, datata in latino Velitris Nonis Martiis (Velletri, 7 marzo 1962):

Frattanto, però lasciamiti far gli auguri per la tua promozione ad ispettore effettivo, che se ha un torto, è di essere venuta troppo tardi.

Stava finendo l’anno scolastico. La mamma si ammalò e in pochi giorni se n’andò. Era quasi ottantenne, è vero, tuttavia la sua scomparsa ci colse tutti di sorpresa; d’improvviso in famiglia ci sentimmo tutti più soli, lei ci teneva uniti. Era stata impareggiabile: quanti sacrifici per tirare avanti la famiglia, per farci studiare, dopo la morte del papà. Con lei si estingueva un ramo della famiglia Guadagnini. Gli anni erano passati troppo in fretta, mi resi conto di aver anch’io passato ampiamente la cinquantina. Furono giorni tristissimi. Non immaginavo che si potesse soffrire in modo così intenso.

Ed egualmente non so che cosa valga meglio contro il dolore se una buona parola, il tempo, la speranza, un farmaco egizio o un vino sincero. È amaro il calice del dolore, è carità cristiana che ognuno beva il proprio fino alla feccia, che porti da solo la propria bisaccia, senza attendere che un generoso cireneo porti per un tratto la croce per noi.

Non so che cosa faccia più uomini, se il valore l’onore l’amore, il dovere o la bontà, o qual altra virtù, se non caricarsi in ispalla la croce che la Provvidenza ha predisposto per ognuno di noi.

Ma beato l’uomo che giunge senza lagno al suo Golgota, dopo aver superato la desolata palude dello scoramento e del disinganno, sopportato le ferite dell’irriconoscenza degli uomini, il cociore dei tentativi falliti, le cantonate dei progetti non riusciti, le batoste inevitabili della sorte imparziale; il greve amarore della nostra impotenza... e le molte struggenti ingiustizie e il merore di giorni pei lutti di casa; le bizze e lo spasmo di questa povera carne, e ancora trova la forza di sciogliere il brincio che tiene contratte e di marmo le labbra, che trattiene nei cigli una lacrima gonfia.

Perché sempre giunge, all’estremo del duolo una dolce carezza, ci rianima il calore d’una giusta parola, ci ridona vigore il muto conforto d’una consorte presenza e ci riscuote d’ebbrezza una neonata emozione.

Questi furono i pensieri che mi si impressero nell’anima in quei giorni e mi diedero forza. La mia fede andava mutando, maturando: la sofferenza aveva bruciato gli entusiasmi giovanili, superato l’atteggiamento di abbandono filiale, cancellato ogni facile idealismo. La fede attingeva ora ad altre inesauste sorgenti, più fresche, più pure, più in alto; mi dava coraggio e conforto, era una corazza contro i dubbi più insinuanti che le “ragioni” terrene suggerivano alla mente.

Fu una dura ascesi. Scoprii un nuovo significato alle parole mille volte udite: « la Croce è il simbolo della fede». Sempre le avevo banalmente interpretate. Era un messaggio di verità che avevo capito col cuore, attraverso quel che avevo provato, non aveva bisogno di dimostrazioni, di dogmi, per essere creduta: ne intuivo eideticamente tutta la necessità, l’immenso contenuto spirituale e salvifico (kerigmatico, direbbero i teologi).

La perdita della mamma aveva ricomposto le sillabe del magico abraxas con cui si cerca di far quadrare la ruota della vita. La nuova lettura ridava la medesima frase, mettendo in rilievo una diversa parola: la vita continuava, con nuovo sale ed amara solitudine. Continuava, dopo aver inghiottito e fatto ben nostro un fiele che pareva veleno. Continuava, rassegnata a quell’ignoranza che Caino non seppe accettare.

Passati però alcuni giorni, tornando all’imbrunire dal cimitero, diedi un calcio ad un ciottolo, che indifferente se ne stava lì in terra e mi dissi con diniego reciso: «Diàmine, così si è uomini... sempre in credito di una vittoria».

Per quel che riguardava la scuola, nel maggio del 1963 organizzai, con la neonata Comunità Montana, un convegno a Breno per dibattere i problemi peculiari delle scuole di montagna. Era un modo per far udire anche fuori dalla valle le nostre esigenze, confrontarsi con altre realtà analoghe e proporre adeguate soluzioni.

Si stava inoltre concludendo il primo anno del corso “pilota” dell’Istituto Magistrale: funzionava come sezione staccata dell’Istituto bresciano, ma si era decisi (Monsignore in testa) a costituirlo entro breve completamente autonomo per poterlo «tipicizzare» per la preparazione dei maestri destinati alle scuole di montagna. In quello stesso autunno sarebbe iniziata anche la prima classe del Liceo Scientifico. Breno si avviava così a diventare la piccola Atene della Valle Camonica (la definizione è del maestro Felice Bellicini, corrispondente in quegli anni del «Giornale di Brescia»).

Monsignor Vittorio Bonomelli (nato nel 1917), di famiglia numerosa (17 figli), fu ospite per un breve periodo presso don Cesare Rossi a Esine, dove frequentava la scuola elementare, col maestro Moreschetti. Ordinato sacerdote nel 1942, partecipò attivamente alla resistenza (Radio Londra si riferiva a lui chiamandolo col nome della popolare maschera bergamasca Gioppino di Sanga). Eravamo due personalità forti ed esuberanti, difficile di primo acchito andare d’accordo, senza la volontà determinata di combinare le proprie energie in vista di un risultato finale, che neutralizzasse da sé anche quel po’ di ambizione personale che sorreggeva la nostra azione. Lavorare insieme aumentò la stima reciproca. E sono certo che molti episodi sono conosciuti solo dalle persone che hanno ricevuto le sue cure, il beneficio di una sua visita, il dono del suo bene.

L’ultimo atto della nostra amicizia furono quelle poche righe che scrissi recensendo il suo libro Il rimorso non perdona. Mi accorsi che parlare del libro era stato un pretesto per parlare del sacerdote, dell’incomparabile sublimità di una missione e della combinazione di questi elementi nella vita concreta di un uomo e dei sacrifici, delle rinunce che questa scelta comporta – ma probabilmente non è così facile fare orecchie da mercante a una vocazione:

Ritengo impossibile e sicuramente controproducente un tentativo di riassumere la trama dell’opera, limpida e trasparente e, nello stesso tempo, complessa e varia quali sono gli impulsi ed i sentimenti di una ricchissima anima.

Ma poi le cose si complicano per noi uomini della strada e salgono a livelli sconosciuti e, forse, appena sospettati dai comuni cristiani, in quanto la realtà profonda del dramma è quella tutta interiore della vita sacerdotale.

Vi sono pagine assolutamente vere, che trasudano sofferenza e sangue, che sono nate genuine e brucianti da un’anima che ha vissuto trionfalmente l’insondabile doglia del dramma sacerdotale, raggiungendo l’ineffabile appagamento interiore dell’Infinito. […]

Il racconto è tutto intessuto di argomenti che rispecchiano un preciso mondo parigino ma, nello stesso tempo universale, che ci conquista per la sua altissima temperatura spirituale che mai si smorza perché alimentata dalla verità di un’esperienza sacerdotale varia e sofferta con ardore e coraggio che ritengo non comuni. […]

E se i bilanci finali di tutti i protagonisti sono religiosamente positivi nel loro insieme, ciò non delude e non allontana perché sotto vi si sente, anche volutamente nascosta, l’ansia missionaria, l’amore sacerdotale infinito dell’Autore.

In quei primi anni Sessanta prese avvio anche il Centro Camuno di Studi Preistorici: nel 1964 inizierà le pubblicazioni il «Bollettino». Quando mi chiesero di “dare una mano” accettai di buon grado. Era una occasione straordinaria per la Valle , per la cultura della Valle. Il prof. Emanuel Anati era un giovanissimo e già molto apprezzato docente, aveva frequentato le università di Gerusalemme, Harvard e Sorbona e conseguito prestigiosi dottorati.

Fui tra i soci fondatori del Centro. Ricoprii la carica di vice-presidente; ma già dal secondo anno fui promosso Presidente, diciamo così, “per meriti di lavoro”. L’attività era effervescente, Anati un vero vulcano di progetti e di iniziative. Lo invitavo spesso a non fare il passo più lungo della gamba, altrimenti il Centro avrebbe dovuto chiudere per bancarotta in pochi anni. Non era facile ottenere i finanziamenti. Nessun confronto con le università da cui proveniva: le risorse della Valle e di Capo di Ponte erano sì generose, ma disperatamente all’osso. Mese per mese le voci d’uscita andavano moltiplicandosi; approfittavo dell’assenza del Direttore, impegnato nelle campagne di scavo, per rimettere un po’ in sesto il bilancio, ma era un’impresa. Le Relazioni del Presidente furono un po’ reticenti su questo argomento. Cominciarono poi le prime incomprensioni, ognuno irremovibile sulle proprie posizioni. Prima di giungere a una rottura clamorosa pensai bene di interrompere la mia collaborazione, che era durata parecchi anni. Nel 1974, alla vigilia della grande mostra sulle incisioni rupestri a Milano, lasciai definitivamente il Centro. La Regione Lombardia scelse nello stesso anno la cosiddetta “rosa camuna” come proprio stemma.

Il 20 agosto 1965 si inaugurò la grande mostra sul Romanino, che aveva entusiasmato molti anche in Vallecamonica. Un cartello indicatore in verde con la scritta “Mostra del Romanino” rimase per anni sull’angolo del bar “Garibaldi”.

Ma Esine era in ansiosa incertezza per le condizioni di salute dell’arciprete don Pedrotti. C’erano ormai poche speranze. Dopo un beve miglioramento morì, infatti, il 29 agosto. Andai con Margherita a portare le nostre condoglianze. Le nipoti, che il sacerdote aveva cresciuto in canonica, stavano raccontando un episodio che le aveva colpite. Un chierichetto di quinta elementare, dicevano, aveva chiesto al buon parroco che gli comperasse una Bibbia, allora costava mille lire, in uno dei suoi ultimi viaggi a Brescia del martedì. Durante una gita a San Glisente, il papà, ’l Dùrt, aveva suggerito al proprio figlioletto di raccogliere un mazzetto di fiùr de Hàn Ghidét da portare all’arciprete, per ringraziarlo e perché senz’altro li avrebbe graditi. Tornati dal monte, il bravo brighella corse subito in canonica a portare il mazzetto di fiori e una secchiolina di fiurìt de la màlga. Ricevette complimenti e carezze da parte tutti, e si facevano meraviglie che ’sto pìhambràga de ’n cotarèl, “un ragazzino piscialletto”, avesse avuto un pensiero tanto delicato. Era una bella e calda domenica d’inizio agosto, il giorno dopo l’arciprete sarebbe entrato in ospedale.

In attesa della nomina del nuovo parroco, giunse come economo spirituale, don Felice Murachelli, un vero cacciatore di opere d’arte in particolare di affreschi. Rimase per quasi due anni. Prima dell’estate 1967, fece l’ingresso come parroco don Daniele Venturini. E qualche mese dopo veniva sostituito anche ’l cüradì, don Innocenzo Bontempi: lasciava un Oratorio, con sala cinematografica e campetto di calcio, per il quale aveva sacrificato un brolo magnifico e il primo piano della propria abitazione (appuntamento fisso alle cinque del pomeriggio con la “Tivù dei ragazzi” e poi per una partita a dama o a ochèi, come si chiamava allora il calciobalilla), una falegnameria dove molti giovani avevano passato anni di apprendistato, una Schola cantorum e il ricordo di un curato che molto andava assomigliando a don Bosco. Il nuovo curato era don Antonio Spadacini di Astrio. Se a questo si aggiunge lo scioglimento del Consiglio Comunale e le elezioni anticipate (12 novembre), ben si comprende come il 1967 sia stato un anno di grandi cambiamenti a Esine.

L’undici settembre 1967 partivo per un viaggio in Grecia, luogo ideale per riflettere. L’anno scolastico che stava per incominciare si preannunziava, infatti, irto di difficoltà: il Provveditorato aveva disposto l’orario unico per tutte le scuole della provincia. Erano aboliti i rientri pomeridiani e il giovedì non era più giorno di vacanza. La popolazione era divisa sull’orario unico, in molti paesi si organizzarono dei referendum. E per me ritornavano tristi ricordi di guerra.

Ero assolutamente contrario, nonostante le disposizioni superiori. Non che per tradizione amassi conservare la vacanza del giovedì, così cara a Pinocchio, ma per ragioni di efficacia pedagogica. Amavo ad un tempo la tradizione e il rinnovamento: avendo di mira l’interesse dei bambini non si poteva sbagliare. Non riuscivo a capire perché insistere tanto sull’adozione dell’orario unico e contestualmente introdurre il doposcuola!

Furono quattro mesi di tensione, di battaglie. In particolare mi ricordo una infuocata riunione al cinema dell’oratorio. A nulla valse tutta la veemenza della mia passione (cominciai allora a pensare che mi fosse controproducente, appunto perché esagerata, intransigente, perché assolutamente non disposta al compromesso); la riunione era stata preceduta da settimane di aspre polemiche – manifesti cattivi furono affissi in paese contro un’“autorità scolastica” –; presagivo fosse una battaglia perduta in partenza, perché si era verificata un’ingerenza assolutamente inconcepibile: presidente del patronato scolastico era il nuovo curato don Antonio.

Era una persona fine, intelligente, generosa, molto cortese, lavorava molto coi giovani, attento alle avvisaglie del nuovo che sarebbe scoppiato di lì a poco e senz’altro all’avanguardia su vari fronti, tanto nel campo della teologia e della pastorale, che della psicologia (era forse l’unico in tutta Esine a possedere l’edizione Musatti delle opere di Freud); ma per certi aspetti anche sfuggente. Era più fermo di me nel difendere le proprie opinioni; possedeva una calma che mi esasperava, perché sembrava non volesse mai giungere a una decisione chiara. Raddolciva gli spunti polemici e riusciva ad ottenere consenso non tanto con argomenti serrati, ma con la lentezza un poco ipnotica di chi parla come non fosse mai parte in causa. Mi rendo conto che è un giudizio severo. In quella vicenda era in gioco la nostra credibilità, avevamo armi molto appuntite, come lance di un torneo: nessuno voleva esser lo sconfitto.

E così anche ad Esine, dal 4 febbraio 1968 si iniziò con l’orario unico. Incassai la mia sconfitta e mi ritirai in buon ordine. Cominciai a pensare che stavo forse invecchiando, se il mondo correva tanto veloce.

Mi dispiace non aver avuto l’occasione di chiarirci con calma ogni cosa: ne sarebbe nato un proficuo dialogo, ne sono certo, nonostante fossimo molto distanti anche ideologicamente. Nel 1969 lavorammo insieme per l’acquisto di uno scuolabus, senza difficoltà e nel 1970 aveva già chiesto di essere trasferito presso i nostri emigranti di Zurigo.

Furono anni molto intensi. Ero contento delle varie “primavere”, da Praga a Parigi. L’aria, fresca e pazzerella come in una giornata di marzo, era satura di pollini dei “figli dei fiori”, che risvegliavano ormoni sopiti e strambe allergie.

Anche il lavoro di rinnovamento didattico procedeva a gonfie vele. Nell’inverno 1967-68 organizzai dei convegni magistrali nei vari circoli e nell’ultima settimana di giugno dell’anno seguente anche una gita in Sardegna coi maestri.

Il Centro di lettura, che funzionava da quindici anni, fu trasformato in Centro Sociale di Educazione Permanente: noi ispettori fummo naturalmente chiamati ad un convegno. Dal 1961 il Centro di lettura organizzava annualmente una fiera del libro. Quella del 1969, inaugurata il 10 maggio, riuscì molto bene. Il direttore Baffelli ricordò la presenza in Esine della ricca biblioteca curaziale, risalente al 1700. Ed anch’io dissi due parole: era sotto gli occhi di tutti il bel fermento culturale che animava anche comunità piccole come la nostra.

Per il Natale 1967 uscì il primo numero de «El Caròbe», il bollettino parrocchiale. Mille volte mi rigirai fra le mani quel modesto opuscolo. Il titolo stesso mi sembrava ben scelto: stava ad indicare il crocevia principale del paese, punto d’incontro di quanto passava per il paese, «eco della vita operosa di Esine religiosa e civile» si diceva nella presentazione. Per questa prima uscita avevo preparato un breve articolo sulle alluvioni nella Val Grigna e la bòta de ’Alintì Viulì. I miei interventi non avevano nulla di pretenzioso, per carità, non avrei scelto un “bollettino parrocchiale”, il loro scopo era semplicemente di intrattenere i compaesani, mettendo per iscritto la tradizione. Certo, così facendo, ne era anche il canto del cigno, ma questo lo si scoprì solo dopo: in quel momento tutti i lettori del bollettino conoscevano le storie che raccontavo e le riconoscevano. A volte non le ricordavo bene o sapevo dell’esistenza di varianti. Capù e Maìa erano una biblioteca inesauribile. Non vedo quali meriti “preclari” possa avere in questo: non ero né uno studioso di folklore, né un letterato, soprattutto non volevo farne un museo. Forse ero semplicemente un cünta-bòte che si era adeguato ai nuovi mezzi di comunicazione.

Questi interventi assunsero il carattere di rubrica dal n. 1 del 1969, col titolo I racconti del prof. Ameraldi. Per chi mi conosceva, penso che il titolo servisse solo a dare una generica indicazione dell’autore, ma per chi mi conosceva poco o per i non Esinesi, dovevo dare l’impressione di essere una figura quasi istituzionale, come un “padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Vangelo di Matteo 13, 53).

Mi riconoscevo molto in quei racconti: ero così anche nelle riunioni di amici, nelle frequenti cene, nelle gite.

Mi riconoscevo anche nei personaggi che descrivevo: via via mi accorgevo che la mia fisionomia, il mio carattere, il mio modo di vedere e valutare assomigliavano sempre più.

C’è senz’altro orgoglio nel non lamentarsi, nel non chieder favori; dal canto mio ci vedevo una certa fierezza, la coscienza di poter fare da solo scegliendomi i compiti a misura delle mie forze, la libertà di non dipender da altri e, più ancora, di non esser di peso al mio prossimo. I valori che mi davano certezze solide li avevo attinti dall’umile paesello. Scrivendone era un po’ disobbligarmi con un tributo pubblico di riconoscenza – pensandoci, mi commuovevo. Quando poi abbandonai la scuola andando in pensione (nell’ottobre del 1973), questo divenne il mio ambito preferenziale. Avvertivo, sentendone in me forse la conferma, che i buoni insegnamenti della tradizione, la “morale” di ogni aneddoto che si tramandava, aveva un che di talmente caratteristico e di profondamente positivo che doveva essere preservato dall’edacità del tempo; ne erano anche un antidoto efficace.

Una domenica d’estate – ricordo solo che era l’ottava domenica dopo pentecoste – la lettura del vangelo durante la messa mi catturò l’attenzione, e continuai a ripetermi nella memoria le parole udite: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Vangelo di Luca 6, 45). Coi miei racconti non volevo certamente “rubare il lavoro” ai bravi sacerdoti, volevo semplicemente mettere in rilievo la sostanziale bontà delle nostre popolazioni e che questa bontà è in perfetto accordo con l’insegnamento cristiano.

Col n. 1 del 1970 iniziai una nuova rubrica Modi di dire che scompaiono. Per ogni numero preparavo un breve commento a un detto, un’espressione idiomatica: di alcune conoscevo l’occasione nella quale erano sorte, altre mi erano affatto misteriose. Non di rado invocavo la competenza di chi ne sapeva più di me.

Destino volle che alcuni di questi detti, che indicano eufemisticamente il morire, mi venissero dettati, con strazio profondo per me che l’ascoltavo, da mia sorella Emilia durante i suoi ultimi mesi. La perdita di Emilia mi fece constatare da vicino quanto coraggio possa dare la fede nell’accettare senza lamenti, senza rassegnazione, la malattia e l’imminenza della fine.

Il 26 aprile 1970 si celebrò il 75° di fondazione della Cassa Rurale ed Artigiana di Esine. Si pubblicò un opuscoletto per il quale avevo scritto una scheda storica. Mi rallegrò la presenza di Mario Pedini.

Il bollettino riportava ogni tanto delle lettere di lettori, soprattutto emigranti: esprimevano begli apprezzamenti, oltre che sui miei scritti, sulle notizie genealogiche delle famiglie che Tani Bonettini andava faticosamente ricostruendo.

Devo dire che era un bel bollettino, probabilmente uno dei più belli della provincia. Animatore di questa impresa fu l’infaticabile don Daniele Venturini, caratteraccio forse brusco, personalità tormentata, ma con un grande amore per la cultura e con una certa abilità di talent scout , di “scopritore di talenti”. Sarei immodesto a considerarmi un talento, ma gli devo onestamente riconoscere che senza l’occasione offertami da «El Caròbe» non avrei mai occupato il mio tempo libero imbrattando le carte. Il lavoro redazionale impegnava molte delle nostre energie; i costi aumentavano di numero in numero, eppure si perseverava e ogni numero era un poco migliore del precedente.

Nel dicembre del 1970 seguii a Serramazzoni (Modena) un corso nazionale di studio per ispettori scolastici della durata di ben dieci giorni, dal 3 al 12. Capitava in un periodo in cui non ero affatto ottimista di come stavano andando le cose per la scuola della Valle Camonica. Ero davvero preoccupato e ne soffrivo. Potevo parlarne solo con Margherita.

L’anno dopo il corso si ripeté a Firenze, dal 29 novembre al 6 dicembre. La situazione non era di molto cambiata. Eppure avevo lavorato incessantemente, e non da solo!

Nella settimana dall’11 al 19 novembre 1972 toccò a me organizzare un Corso residenziale di aggiornamento per i maestri di nuova nomina.

Ai politici e alla burocrazia dei vari uffici preposti il compito di occuparsi delle strutture scolastiche, io potevo impegnarmi nella preparazione pedagogica e didattica dei nuovi maestri, rendendoli coscienti delle oggettive difficoltà in cui si dibatteva la scuola in Valle Camonica (con una attenzione particolare al contesto sociale ed economico dei singoli comuni della Valle – il boom si andava ormai sgonfiando), sollecitandoli a rimanere sempre aggiornati, aperti al nuovo, invitandoli a non rincorrere chimere ideologiche che tradotte nella pratica didattica quotidiana si rivelavano non essere quella panacea che pretendevano di essere.

Il gruppo GISAV mi preoccupava: ne facevano parte maestri indubbiamente validi, preparati, motivati, molto attenti all’ambiente; si riunivano periodicamente, al proprio interno avevano costituito gruppi di studio per la matematica, la storia, la lingua; erano molto battaglieri. Mi capitò di scontrarmi alcune volte con alcuni componenti del gruppo: forte della mia lunga esperienza ero irremovibile sulle mie posizioni, forti anch’essi, perché innestati su una ideologia altrettanto intransigente, mi attaccavano apertamente con modi spesso violenti e supponenti. Perciò con questo gruppo il dialogo si arenò. Col tempo i toni avrebbero potuto esser mitigati e diventare più concilianti, ma allora la frattura, la ferita, era aperta e mi faceva soffrire: eppure il gruppo si ispirava a Freinet, a Mario Lodi, a Bruno Ciari, al Movimento di Cooperazione Educativa! In dieci anni, quante cose eran cambiate!

In nome della libertà didattica ero ben disposto a lasciar fare, conoscendo il rigore morale e l’impegno dei maestri; l’esempio del ministro Biggini mi confermava inoltre che questa era la strada giusta, non era anacronismo, «rigurgito fascista». Ma non potevo tollerare che nella mia circoscrizione esistesse un gruppo che percependo uno stipendio dallo Stato, non stesse alle regole.

Circolava sul mio conto una barzelletta che traeva spunto da un episodio effettivamente accaduto. Durante una ispezione feci notare a un maestro che non aveva il cubo in classe. Era una mia fissazione che in ogni classe fosse ben in mostra un cubo di un metro di spigolo, costruito dagli stessi alunni, perché avessero un’idea concreta del suo volume. Il maestro mi rispose che il cubo era stato effettivamente costruito, ma che al momento si trovava nell’aula di lavoro. «Lo porti in classe immediatamente» gli ordinai. Il maestro andò a prendere il cubo ed arrivato sulla porta dell’aula mi fece notare: «Non passa»; al che candidamente suggerii: «Lo giri, somaro!»

E mentre l’amico Pedini era riconfermato per la settima volta sottosegretario agli Esteri, andavano maturando per me gli anni sufficienti per andare in pensione. All’inizio di ottobre del 1973 seppi dalla segreteria che mi sarebbe stato conveniente andare in pensione prima del compimento del 65° anno. Mi rimaneva giusto il tempo per i saluti e per disporre il passaggio delle consegne. Il 25 ottobre fui ufficialmente “collocato a riposo”.

Sabato 1° dicembre gli amici, i colleghi, le autorità politiche e scolastiche mi organizzarono una bella cerimonia di addio a Breno; erano presenti cinquecento maestri dell’intera Valle. Ero veramente commosso, «tra gente educata, si sa far la tara ai complimenti» dice il Manzoni. Il direttore Baffelli aveva inviato una lettera a tutti gli insegnanti del circolo riassumendo il significato della mia opera come ispettore:

L’Ispettore Ameraldi ha certamente meritato la risonante manifestazione che gli verrà tributata. L’onore che verrà reso a Lui si rifletterà su tutta la categoria magistrale camuna la quale, in tempi di generale dissesto ecologico-morale e di massificazione intellettuale si dimostra ancora cultrice di quel raro sentimento che è la riconoscenza, nonché capace di una lettura profonda e di una chiara interpretazione dei fatti che le scorrono agli occhi.

Nella storia della Circoscrizione di Breno il Prof. Oberto Ameraldi (se non erro) è il primo Ispettore titolare camuno al 100%. Uno strano gioco di norme di legge, disgiungendo la data della sua cessazione dal servizio da quella della fine della Circoscrizione Scolastica, gli ha impedito di essere anche l’ultimo e di chiudere formalmente la serie degli Ispettori di Breno. Ciò tuttavia non impedisce a chi ha senso storico di rilevare come la sua vicenda di Ispettore ricapitoli e chiuda un’intensa epoca della Scuola Elementare Camuna.

Storicamente parlando è il periodo in cui la Scuola Elementare della Val Camonica riprende piena vitalità dopo le mortificazioni legate al periodo bellico, pone e risolve, con impegno concreto, che ha pochi riscontri altrove, i problemi dell’edilizia scolastica, dell’adeguamento degli organici degli Insegnanti alle esigenze di una Scuola che ha eliminato (per quanto le compete) ogni forma di evasione dall’obbligo e di mortalità scolastica da bocciature, creando così le necessarie premesse per l’istituzione e la rapida crescita della nuova Scuola Media.

È il periodo che vede sorgere istituzioni volte al recupero educativo sociale dei fanciulli subnormali, che vede porre ed affrontare anche i problemi degli Insegnanti: problemi di formazione attraverso un Istituto Magistrale valligiano, problemi di inserimento nell’ambiente (convegno sulla legge n. 90), problemi di aggiornamento dopo la ventata rinnovatrice dei programmi del 55 (convegni, incontri, corsi).

È il periodo in cui si affrontano, pur nei limiti dei mezzi a disposizione i problemi dell’educazione degli adulti, e che vede la Valle Camonica calamitare su di sé il maggior numero di Centri di Lettura e di Educazione Permanente, di corsi popolari e di orientamento musicale che il ministro della P.I. assegna alla Provincia di Brescia.

Ora, del gruppo di coloro che pure a titolo diverso sono stati i promotori e i protagonisti di questo processo di sviluppo e di rinnovamento, l’Ispettore Ameraldi ha costituito una componente permanente.

Con uno stile tutto suo, determinato da una natura generosa e dinamica, da una formazione socio-culturale di basi solide ed ampie, da una multiforme esperienza umana e professionale maturata dentro e fuori i confini d’Italia, l’Ispettore Ameraldi è stato un personaggio massiccio sulla scena della vita camuna di questi anni.

Ciascuno di noi l’ha visto impegnato nelle più diverse attività e in una gamma amplissima di atteggiamenti che vanno da quello vellutato del diplomatico a quello aspro e tonante del contestatore.

In ognuno di questi ruoli, che la diversità delle circostanze gli imponeva, c’era sempre uno spiraglio da cui era possibile cogliere la nota dominante della sua personalità: l’umanità.

Dirigenti ed insegnanti sapevano che qualunque contrasto potesse insorgere per divaricazione di giudizi o di scelte, con l’Ispettore Ameraldi era facile ritrovarsi perché la sua carica di umanità avrebbe prevalso su tutti e su tutto ed egli sarebbe riapparso anche in facciata quello che mai cessava di essere nell’intimo e cioè l’amico.

In un’unica circostanza era intransigente: quando si attentava alla personalità degli alunni vuoi per carenza d’impegno educativo, vuoi per altri motivi. Erano allora guai per i colpevoli ma alla fine le risorse della sua esperienza sapevano trovare anche per loro quelle uscite risolutive che solo un cuore generoso poteva auspicare, ed uno scaltrito cultore del diritto scolastico poteva trovare.

Di questa protezione i fanciulli ignari gli erano riconoscenti e glielo dimostravano con espressioni di cordiale simpatia nel corso delle visite alle classi. Di questo gli sono stati riconoscenti i genitori, gli amministratori pubblici ed i parroci camuni, nonché i maestri, ormai da anni lontani dalla scuola.

Essi si associano all’omaggio che noi gli rendiamo ed all’augurio che, con la presenza, la parola, lo scritto continui ad esserci il consigliere, l’animatore, l’amico di sempre.

 


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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010

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