Oberto Ameraldi: Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 600-626. |
10.4. Iseo, Breno. Esine per sempre (parte quarta)
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Per l’occasione del mio pensionamento il Comune di Esine, il Comune di Breno e la Comunità Montana si compiacquero di conferirmi una medaglia d’oro.
Ero a casa da solo, Margherita avrebbe atteso ancora un turno. Libero da impegni di lavoro mi occupai di molte brighe minute che riguardavano la mia “piccola patria”, Esine. Dai laghetti all’affresco di Casa Sacellini alle vicende del vecchio ponte sull’Oglio. Mi aiutava in queste mie piccole campagne il giornalista Danilo Tamagnini. Cominciò a frequentare Esine e la nostra casa come un caro amico; i suoi articoli mi meravigliavano sempre, perché sapeva parlare con garbo, competenza e chiarezza dando il giusto peso ad ogni cosa; per lui Esine e “il prof. Ameraldi” si identificavano a vicenda. Era un intenditore di vini e un vero amante della buona cucina: una sfida impegnativa per la mia cantina e per l’arte culinaria di Margherita.
Mi interessai anche dell’Avis, presenziando all’inaugurazione (10 giugno 1973), offrendo in seguito l’arredamento; ma non credo che mi abbiano fatto presidente onorario per questi motivi.
Come strenna natalizia del 1976, riunimmo i Racconti in una pubblicazione, Storie di povera gente e le annotazioni, diremmo così, “filologiche” in Modi di dire che scompaiono (strenna natalizia 1977). Sostenevo finanziariamente le spese delle strenne, riservandomene un certo numero di copie che poi inviavo ad amici e colleghi. Attorno a Storie di povera gente si concentrò un certo interesse da parte dei maestri, che mi fece molto piacere. Nel 1982-1983 le due raccolte furono ristampate con l’aggiunta dei racconti e dei modi di dire pubblicati nel frattempo. I due volumetti mi diedero un certa notorietà e servirono a dare di me un’immagine un poco diversa rispetto alla solita, legata alla mia professione.
Altre strenne degne di nota furono Il pittore Antonio Guadagnini (1971, ristampata nel 1979 con l’aggiunta di 118 lettere), la mia tesi di laurea su Giambattista Guadagnini giansenista bresciano (1972).
Due amici di Iseo mi chiesero in quegli anni di scrivere due parole di introduzione ai loro libri: Aurelio Rosa al suo volume Sull’onda dei ricordi (Brescia : Linotipografia Squassina, 1978) e il poeta dialettale Franco Fava al suo poemetto … e sö e zó… (Edizioni del Sebino, 1980). Cercai poi di interessare un giornalista de «Il Giornale nuovo» sul volumetto del giovane Mauro Morganti, Gente del lago, ma senza successo.
Il 1978 fu un anno importante per la cultura di Esine; figura centrale: don Alessandro Sina. Il 26 febbraio venne commemorata la figura con un convegno nella sua Santa Maria. Sabato 1° aprile padre Antonio Cistellini presentò la ristampa anastatica di Esine, storia di una terra camuna, e il 9 dicembre gli venne dedicato un convegno.
In quei mesi ero euforico anche per un’altra realizzazione che avrebbe avuto il battesimo col nuovo anno scolastico: il Conservatorio di Darfo, con i suoi primi 55 iscritti. Il Comune di Darfo aveva acquisito nel 1975 il grande convento costruito nel 1721-29 dal cardinale Querini, ed affidato alle Suore della Visitazione. Lì aveva studiato la migliore gioventù della Valle, fino al 1797 e alla soppressione napoleonica (1810). Riprese a funzionare nel 1837 e affidato alle Figlie del Sacro Cuore. Il decreto di istituzione del Conservatorio recava la “firma” di Mario Pedini, ministro della Pubblica Istruzione dall’11 marzo 1978.
Mantenendo una promessa annunciata nel 1971, il 10 agosto 1978 il notaio Renato Anessi formalizzò l’ Atto unilaterale di donazione delle opere del pittore Antonio Guadagnini alla popolazione di Esine. La raccolta fu sempre custodita gelosamente dal nonno e dalla mamma, anche in periodi di ristrettezze economiche – quando ero ragazzo, il cav. Francesco Rusconi di Breno ci aveva offerto ben quattro mila lire per la Maddalena –.
Era giunto il tempo di mantenere anche un’altra promessa, fatta a don Daniele, diedi in dono alla parrocchia il ritratto di don Paolo Nodari, opera del pittore Antonio Guadagnini, ma escluso dalla raccolta donata al Comune.
Il Comune di Niardo ogni anno premiava con una statuetta del patrono S. Obizio una personalità camuna che si era distinta per meriti particolari. Nel 1980 pensarono che mi fossi meritato questo onore e mi attribuirono il premio. Fui molto fiero del riconoscimento. La motivazione, come sempre càpita, aveva però un poco esagerato i miei meriti:
Oberto Ameraldi, direttore didattico, ha profuso per lunghi decenni la propria passione pedagogica nella scuola camuna. Organizzatore efficiente, maestro insigne, ha guidato con mano ferma e con occhio attento generazioni di educatori e di allievi. Erede di una famiglia di grandi tradizioni artistiche, ha raccolto in questi anni alcuni aspetti della storia e della cultura popolare della valle. Polemico, generosissimo, privo di schematismi, ha lasciato con la propria personalità un segno tangibile nella scuola e nella società camuna.
Continuai la mia collaborazione anche col successore di don Daniele, don Gianni Spadacini. Nel 1982 avevo ultimato le Memorie di Spagna e Tunisia e contavo di offrirle poi come strenna. La nuova redazione del bollettino non approvò la proposta. La decisione mi rammaricò molto. Pubblicai le Memorie per mio conto e le distribuii gratuitamente agli amici. Il libro fu letto nelle scuole superiori: mi fece oltremodo piacere incontrare gli studenti dell’Istituto Magistrale di Breno e discutere, chiarire, portare una testimonianza diretta, parlare del valore della storia. Quell’incontro fu poi anche trasmesso da una televisione locale.
Cominciai a perdere entusiasmo nel lavoro e diradai i miei interventi, fino a sospenderli quasi del tutto.
A completamento della mia attività “editoriale” non mi resta che aggiungere il volume che raccoglie gli scritti della poetessa Laffranchini (pubblicazione offerta ai soci della Cassa Rurale ed Artigiana di Esine, 1988) e la ristampa di un introvabile dizionarietto del gaì di Giuseppe Facchinetti.
Si stava avvicinando il cinquantesimo della morte del pittore Nodari (1980). Leonello Santini, Esinese residente a Roma, era sulle tracce delle opere che il pittore aveva eseguito a Roma, durante il periodo militare dal 1909 al 1921. Mi misi in contatto con Aldo Cibaldi, per un aiuto e una consulenza. Scrisse un bell’articolo per «Il Giornale di Brescia». Prima di Natale uscì poi la raccolta di studi Il pittore Giambattista Nodari di Esine.
Nel 1981, Mario Pedini, che oltre agli impegni di Bruxelles, era anche presidente dell’Ateneo di Brescia, pensò fosse giunto il momento di cooptarmi come socio dell’Ateneo. Incaricò Aldo Cibaldi della presentazione. La vicenda andò per le lunghe e si risolvette poi in nulla di fatto. È stato un bel gesto da parte degli amici, ma tutto sommato fui anche contento perché esser socio significava assumersi un bell’impegno. In una lettera a Mario Pedini, rispolverato il lessico opportuno, scrivevo:
So di essere stato un modesto, anche se onesto, uomo di scuola, impegnato a fare sempre il proprio dovere. […] Lasciami dunque come sono, senza cordoni e laticlavi che non mi si addicono.
Nel frattempo si stava profilando all’orizzonte un brutto temporale che mi avrebbe tenuto sulle spine per oltre un anno: Montecampione Due. Fu una preoccupazione da infarto, letteralmente. Uscito dall’ospedale la proposta era già stata ritirata.
In una lettera l’ispettore Antonio Durante mi aveva scritto: «E le due maestre della scoletta là nell’abetaia che sembrano avvilite e invece un giorno s’accorgeranno di avere la poesia della scuola che nasce e si alimenta proprio lì, in quelle scolette sperdute tra i monti». Quella nostalgia ritornava ben viva.
La battaglia in difesa delle montagne di Esine, della malga de Pienàh, era qualcosa di più che una iniziativa ecologica. Avevo da poco ricordato alcuni fatti inerenti l’acquisto di Pianazzo, rispondendo a Gheghi Ragazzi.
Ad Esine si era costituito spontaneamente un Comitato Difesa Ambiente, formato da bravi giovanotti. Avevano già affisso manifesti, distribuito un fascicoletto informativoe un adesivo con un abete sorridente e la scritta «Montecampione Due – No, grazie!», organizzato un’assemblea e raccolto le firme contro la vendita della malga.
Nel frattempo andavo scrivendo articoli per « La Voce del Popolo», ospitato da don Antonio Fappani, cercavo di coinvolgere “Italia Nostra” e il CAI. Si mossero, è vero, ma quando ormai la battaglia era vinta.
Nonostante il danno alla salute ero contento di aver battagliato fino all’ultimo. Purtroppo così andavano le cose: una sorta di “imperialismo metropolitano” stava schiacciando con la sua logica e la sua forza le culture più deboli. Di fronte a questo nuovo “materialismo” che fine avrebbe fatto il patrimonio spirituale, culturale, umano delle nostre semplici popolazioni? Per parte mia avevo fatto quanto potevo per preservarlo. Avessi potuto tornare indietro, avrei fatto anche di più.
Mi dispiacque molto non ritornare quell’estate, per l’ultima volta, al Rifugio “Garibaldi” in Adamello. Il poeta dialettale Silvano Ballardini di Cividate aveva diffuso un invito a quanti amici conosceva, 1ª Scarosàda sö l’Adamèl de ’n ròsöl de scritùr dialetài Bressà, organizzata per il 12 luglio 1982. Gli risposi in dialetto:
Càr al mé Hilvàno Balardí de Hiidà.
Tignít cünt che ’n hè parécc a la lónga (al tò nóno Gioanmaría e la mé nóna Ciarí i éra dermà drícc), la hò dihendènha però l’è gnída-fò a quàc fòde: té te hé poéta e mé apéna cünta bòte.
Èco la razù hè pöde míga mandàt ’nna poesía per dít che le mé balùrde cundisciù le me permeterà míga de gní fín hó al Veneròcol a halüdà chèi póc Brehà fürtünàcc che gh’à ’l bernòcol de la poesía vernàcola nohtràna.
Té te hé fürtünàt: bàhta che te hcùltet al tò cör e te ’é-fò poesía genüína.
Giü che te ’öl bé.
Fra il 1983 e il 1984 i due cari amici della “Scuola Editrice”, Marco Agosti (73 anni) e Vittorino Chizzolini (77 anni) se n’andarono. Per decenni furono l’anima della casa editrice “ La Scuola ”, hanno dato senza risparmio tutte le proprie forze per l’affermazione della pedagogia di ispirazione cristiana. Hanno formato generazioni di maestri, coll’esempio personale hanno dato un’impronta di costanza e di impegno al lavoro didattico quotidiano. Avevano grandi e solidi ideali, una fede che vinceva ogni ostacolo, che si intrecciava nel vivo della professione, che aveva ragione dei molti dubbi che sempre nascono quando si assumono responsabilità educative, quando viene richiesta una umanità che sappia ogni giorno rinnovarsi nell’incontro, nel dialogo con le nuove generazioni.
Non me la sentii di partecipare al funerale di Vittorino. Mi misi invece allo scrittoio e preparai una lettera per il Vescovo nella quale ricordavo episodi di santità di cui ero stato testimone.
Posso dire che i diciassette anni di pensione che ho vissuto insieme alla amatissima mia compagna Margherita sono stati anni splendidi, ricchi di cose varie, di molto tempo da occupare in viaggi, passeggiate (quasi quotidianamente lungo l’argine del Grigna (mi portavo le cesoie per tagliare i rovi che invadevano il già stretto passaggio), verso le Maràsche, sul Bardisone, prendendo il lungo giro della Bià Hpinéra, e SS. Trinità), in ozi più o meno letterari, godendomi ogni tanto anche un sano “dolce far niente” che già il Confalonieri ricordava dalle colonne del «Conciliatore», e Nietzsche invidiava a noi italiani.
Belle soddisfazioni mi diede la mostra sul Pittore Nodari (18 novembre – 3 dicembre 1989), con la pubblicazione del catalogo. Nel Comitato di studio ero aiutato da Giannetto Valzelli e Aldo Cibaldi. Il fotografo Livio Nodari ci consegnò splendide fotografie.
E stavo preparando anche quella su Antonio Guadagnini (7 dicembre 1991 – 6 gennaio 1992), ma non giunsi a vederla.
All’inizio dell’estate 1990, cambiai un poco le mie solite abitudini, uscivo spesso di casa per far due passi in paese, una capatina al bar de Màrio de Híro per far due chiacchiere, all’angolo di piazza Garibaldi, ho ’l cantù de piàha .
Un giorno mi incontrò una conoscente, Ninì de Frédo e mi salutò. Risposi al saluto ed aggiunsi, facendo con la mano il gesto che indica “circa”:
– Me mànca póc , “mi manca poco”.
– A fà che?
– A ’nà do i Albaröi… al cör, “e poi andrò al cimitero... il cuore”.
Ero preparato. Lavorando con Margherita al volumetto sul gaì avevo incontrato l’espressione María Màgra, che indicava la morte. Sorridevo tra me, ammirato di come l’animo umano, e più quello di semplici pastori, sia portato a scherzare anche sulle cose più tragiche: un modo come un altro, forse, per allontanare il senso della incombente minaccia.
E così invece che a Creta, come avevo progettato, sono andato a Patrasso... ad Patres, con qualche settimana d’anticipo.
Eccomi dunque fra voi, avi miei: papà, nonno, bisnonno e voi tutte, donne di casa: Garitì, come va? ci hai raggiunto per ultima; ora la nostra famiglia è riunita al completo come quand’eravamo bambini.
Due giorni prima di morire volli rendere una visita all’amico Glisente. Eravamo orami due vecchietti, forse patetici, con tanti anni, una vita intera passata l’uno a fianco dell’altro; ci abbracciammo, sapendo che sarebbe stato l’ultimo gesto fra due vecchi amici.
A lungo rimanemmo stretti, senza dirci una sola parola, troppi presentimenti pesavano nella mente di ognuno: chi sarebbe arrivato prima al grande appuntamento? I giorni erano contati... contati... ci trattenemmo a stento dal piangere. Qualcosa di grande stava finendo, un’epoca, un modo di pensare; il mondo sarebbe continuato a correre, non sembrava che avesse più bisogno di noi, forse nemmeno del nostro esempio, e per noi era tempo di scendere.
Un’amarezza ci scese nel cuore: nulla avevamo seminato, nulla di ciò in cui avevamo creduto sembrava sopravvivere a noi. Eppure non ci sembravano valori personali. L’amicizia che ci aveva legati per anni era valsa per noi, una gran cosa... che sarebbe finita con noi, col primo che se ne fosse andato.
Ricordavo due mughi cresciuti vicini, nel vasto pascolo del hpundù de Hcandolér, gli ultimi radi su per la costa di Scandolaro: l’uno colpito forse da un fulmine ormai era grigio e cotto dal sole, senza il ben d’un verde rametto e diceva al vicino ancor gagliardo di rami e odoroso di linfe balsamiche:
Io sono morto t’aspetto.
Aspetterai qualcun altro a tua volta.
Così, un sol Ade tutti ci attende.
Alla fine del suo corso anche l’Oglio giungeva alla corrente del Po, ed era giusto così:
L’antico fiume corre stroscia passa
senz’arrestarsi mai.
Impassibile il Tempo ci sospinge,
tacito e senza tregua,
(speranza vela lo fatale andare)
al porto della Morte.
Perdesi l’onda in mare senza lito;
e noi naufraghiam ne l’infinito.
Ero malato. Ottantadue anni, quasi. Fra poco? Adesso? Risento le vostre parole, zio; invitano a un severo esame di coscienza:
Mille e mille voci ora vi chiamano attorno a sé, dipingendovi un avvenire di rose e di fiori, mostrandovi un mondo quale non lo sarà mai; oh contadini, prima di seguirle quelle voci, nel silenzio e nella quiete di una notte stellata, mettetevi una mano sul cuore, volgete uno sguardo lassù e meditate, se nel mesto giorno in cui quel cuore cesserà di battere per questa misera terra, per rivivere a nuovi palpiti, non avrete nulla da rimproverargli delle sue aspirazioni e de’ suoi affetti. Oh il cuore, interrogato senza passione, non c’inganna mai, e quando esso ci condanna, nessuno ci assolve.
Avevo richiesto al mio cuore qualcosa di troppo per le sue deboli forze? Ma forse era quella la sua giusta misura.
Grazie somarello paziente di San Francesco, ora che sto per perderti, mi commuove la tua dedizione. Mi sei stato fedele fino all’ultimo, una vita intera. Ti ho strapazzato, ti ho fatto marciare, anche quando pretendevo da te l’impossibile, tu calmo e filosofo mi portavi, col tuo ritmo, senza fretta; ogni tanto ’nna trotadìna de àden , un trotto d’asino, e poi di nuovo il tuo incedere tardo e costante. E le tue bizze... Per tutto, grazie, appunto, dal cuore.
Scolpita in candido marmo vorrei che un viandante leggesse ammirato un’epigrafe:
OBSEQIO RARO
SOLO CONTENTA MARITO
e nel suo intimo si formasse un’idea di quel che è stata per me Margherita, stupenda e modesta come il fiore di cui porta il bel nome. Per metà della vita fu la metà di me stesso, fu la pienezza che ha ripagato di gioia ogni fioretto a lei dedicato, che ha pervaso di dolcezza e decoro il nostro piccolo focolare domestico.
Aldo Cibaldi ha scritto una poesiola senza pretese su La mórt e l’amúr
Senza dit gnènt, de sfrüs, come ’na stría
la Mórt l’è lé, ’n gatù sö la tò stràda:
de colpo la te ’mpiànta ’na pessàda
che te dis-cióda i òs... e così sia.
[…]Fortüna mò che gh’è l’amùr, belèssa:
ste dò candéle che tapègia ’nsèma
co le fiamèle che se sérca e trèma.
Pecàt però che le se brüze ’n frèssa!
Le chiesi una volta di portarmi il mandolino su cui strimpellavo con gli amici da giovane: m’era nato desiderio di farle una serenata, saltellando sulle corde col plettro, dicendole coi tremuli fitti quel che mi palpitava nel cuore. Non sentivo però nelle dita la forza, e il cuore monello la fisò allora con uno sguardo sorridente e sornione; capì e mi disse di sì con la testa.
Negli ultimi giorni fui distratto un po’ dalle cure e dal male; dagli amici che mi venivano a trovare. Quando li ringraziavo un nodo mi serrava la gola e non riuscivo a parlare; stringevo forte quella mano, come per dire che insieme avevamo camminato buon tratto, ed ora una cengia, alta su un precipizio a strapiombo, ci costringeva a separarci per qualche momento, ma ci saremmo senz’altro ritrovati al di là dell’orrido abisso.
Appisolandomi un poco, rivedevo immagini da una vita sepolte; scorrendole in serie, identiche com’erano al tempo, rivedevo le mille persone incontrate, gli sguardi buoni, i sorrisi, gli amici contenti intorno alla tavola ed era Natale; risentivo il telefono riagganciato con gesto di furia, ed il placido andare d’una 600 sul rettilineo di Viana in Ispagna con la presenza d’un fiore adorato sul sedile vicino.
Oh, sì, queste sono le cose mie, calde, intime, vive. Qui sono io. Ma perché mi viene di parlare in latino? Ah! Serro nei pugni un ricordo che vuole sfuggire. Otto anni: suona la “campanella degli ostinati”, esce dalla sacrestia don Magoni, la pianeta rossa della messa di un martire. Comincia, segnandosi in fronte: Introibo ad altare Dei. Odo i chierichetti rispondere: Ad Deum qui laetificat juventutem meam “Dio rende lieta la mia giovinezza”. Sono ancora un bambino, la messa è una cosa da grandi, magica, bella: è un mistero, è la vita. La giaculatoria continua, mandata a memoria, il rito prosegue dalle parole scandito. Fuori c’è il buio e la neve, ma già è mattino. Ho le braghette corte, le calze lunghe di lana con la fettuccia d’elastico agganciata a un bottone. A casa il caffelatte e l’odor della legna nella stufa che scalda in cucina. La mamma e il papà. Papà! Li bacio i tuoi baffi da uomo, e sento l’odor della pipa. Devo prendere il pane, dopo la messa; ombre nere per strada, curve sotto gli scialli o i neri mantelli. E continuo a cadere all’indietro, indietro nel tempo, ora che ormai tutto già so. Cariddi mi avvolge e mi vuole strappare all’appiglio del mio debole fico. Un respiro, perdio. Annaspo, risalgo, ritorno alla messa. Gufi neri tossicchian nel buio fra i banchi, li conosco uno per uno, ascoltano attenti la messa od assorti nei loro pensieri: le mucche da mungere e poi sul monte per una gerla di strame. Sono ancora il bambino che ero, glabre le guance, biondi i capelli, la sciarpina rossa di lana attorno alla gola, me l’ha fatta la nonna. Dominus vobiscum e dall’altare il prete allarga le braccia: l’Emmanuele è fra noi, Natale quand’è? Dio s’è fatto bambino e compagno di giochi, è un amico, un amico grande, più grande degli angeli. Latine loquemur, insieme parleremo in latino, mi fa divertire, sorrido: quant’è bello il suo mondo! Mi parla diretto alla mente, senza che pronunci parole. Mi tocca il petto un suo dito: un cuore ce l’ho; lo guardo sorpreso, cos’è quel fremere dentro? Kyrie eleison “abbi pietà” sono piccolo ancora! Come si chiama quel piccolo fuoco che mi s’è acceso nel cuore quando tu m’hai toccato? Sto ’n gran bene con te. Sarai il mio amico per tutta la vita. Promesso! Mi ubriacano questi pensieri; una mano mi solleva e mi porta fra gli astri, punge quella luce e vago nel cielo che si tinge all’orizzonte di rosa. Nel crepuscolo intravedo volti conosciuti che non vedevo da tempo, mi fanno tristezza perché non hanno più carne, come fossero morti. Sono solo un bambino, perché è così? Salgo con l’incenso fin quasi alla volta che ha dipinti che non si vedono bene. Campeggia ogni dove la croce, chinan la testa gl’inservienti al lavabo. Là, alla candida ostia elevata richiama il campanello scosso tre volte, ed alzan pei lembi il broccato lucente: Mysterium fidei. Giungo le mani davanti alla bocca a considerare un mistero sublime come fanno i più grandi di me. Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam, così si parla al Signore, come ad un padre; gli angeli parlano così. Cor mundum crea in me, Deus, a te, Signore, affido questo mio piccolo cuore: è tutto il mio mondo di piccolo uomo. Ogni angelo mi presta lo strumento che suona, senti? è la voce del mio cuore che canta per te, è il suono della cetra che dà timbro e colore alla sillaba più ricca di senso. Sono fra gli angeli; vita venturi saeculi , è la vita che verrà. Sento una voce, mi chiama, mi pizzico il braccio per vedere se ancora son vivo, che non mi sia nel frattempo assopito. Agnus Dei, il tenero agnello di Dio, neonato, e me lo coccolo in braccio come una statuina di gesso e lo porto alla grotta. Gesù! Sei tu quest’agnello? Pegurì, sei fatto per starmi sul cuore. Mi stringo forte, abbracciandomi il petto, non per il freddo, ma che non scappi qualcosa, per sentire lo spirito che s’agita dentro. È ora d’andare: Missa est: eamus in pace, andiamo in pace, e via di corsa in Caròbe, è già quasi un po’ chiaro.
Ancor oggi sono lo stesso bambino, gli anni non contano. Voglio abbracciarti, vedere veramente chi sei, e chi sono specchiandomi in te.
Ed a tutte le immagini facevo da stampo io solo, lo stile ed i modi che sentivo per miei, come un remo che batte sempre uguale le onde per la barca che va, finché giunge al suo porto.
Ritornò in quel lieve sopore anche Ulisse e il diario d’un giovanotto di Genova, talmente stanco di navi e di viaggi che sognava una casetta lontana dal mare per poterlo dimenticare per sempre.
A ricordo del viaggio compiuto, mi portavo in ispalla il mio remo: anch’io mi sarei inoltrato fino a trovare dei popoli che non conoscevano il mare, che non mangiavano cibi conditi con sale. Vedendo il mio remo mi avrebbero chiesto che fosse ed il nome: sembrava ai lor occhi un vaglio del grano.
E giunsi finalmente nel luogo più lontano dove qui in terra si possa arrivare. Bussai con colpi sommessi alla porta del paradiso, mi venne ad aprire San Pietro e non riconobbe il lungo remo che mi era servito nel periplo avventuroso che avevo percorso: vide piuttosto il vaglio col quale avevo cribrato il mio spirito per rendermi degno della terra finché ero vivo e forse anche del cielo, se me l’ero acquistato. Bontà sua, mi lasciò passare.
Disperso nel calce d’un libro mi sovvenni d’un distico in rima:
Quel che a morir v’induce
Vi renderà la luce.
E al momento davvero di andare, era il 27 d’agosto ’90, grande fu la fitta del male nel petto ed al braccio; e quando la tensione s’allentò ero già in un mondo diverso, il chiaro nell’aria era più intenso, terso e bello; faticavo a star dietro ai pensieri, ai ricordi che passavan senz’ordine, perché tempo non hanno; la coscienza era sospesa a mezz’aria, ma non avevo la forza di alzare le mani a riprenderla.
Margherita sentivo era lì, mi teneva una mano, umida appena di leggero madore. Per un attimo gli occhi si oscurarono: una cascata di sangue impediva la vista... e poi tutto fu nero; ma ogni tanto si vedevan lontani gli sprazzi d’un denso chiarore, come lampi d’estate, ’l dalfinàa.
Rimasi in quell’attesa forse alcuni secondi, sentivo di aver perso contatto col corpo, ad un’altezza d’abisso.
Dai profondi orizzonti si diffuse un tenue chiarore rosato che andava pian piano aumentando in quell’immensa bolla nel vuoto: uno sprazzo di memoria riportò un antichissimo frammento latino: iúbarne? “Che sia l’aurora?”
Alzai le braccia come fa un bimbo che va incontro fidente a chi sa che lo ama, a qualcuno che a mia volta da sempre ebbi caro e che il cuore terreno non poteva ormai più contenere. Le labbra mormorarono ancora un’impercettibile sillaba: Ádes, Domine «Vieni, o Signore»...
*
* * *
Vivrò nel ricordo che vi ho lasciato, che ancora vive in voi. Vivrò nello spirito etereo che spira nell’aria, attraverso le parole che a voi ho lasciato. Lì è racchiusa la testimonianza di un grande amore per il tetto natìo, per una vita a nostra misura.
A mia volta ho fatto rivivere coi miei scritti, con i racconti, gli aneddoti, le barzellette, le storielle da veglia di stalla l’atmosfera del tempo che fu. Ed ora che anch’io sono uno che fu, ricordatemi, se qualcosa di mio avete preso per voi.
Se qualche fatto della mia vita è analogo ad un altro vissuto da voi, mi potrete meglio capire. Ora che maestro non son più, più nemmeno vi esorto ad apprender dalla storia saggi ammaestramenti di vita... è così cambiata, e cambia ogni giorno talmente, che pare sfuggire... «ed è subito sera» – non ancora a Lozio, vorrei aggiungere, l’è mía gnemò héra a Lóh, non è mai troppo tardi, c’è ancora tempo. C’è sempre un cantuccio di paradiso, ’n cantù del paradíh...
E come il tempo toglie alla vita terreno scavandole ai piedi, così che tutto ad un tratto poi ci troviamo smarriti nel vuoto, tale è del senso che ad essa noi diamo, rôso da un tarlo che la svuota man mano, e non c’è esperienza o speranza che valgano a ridarle ripieno gustoso, se non ripensandola, lasciandola agire da sé, perché sempre fermenta, come vino buono d’annata nella botticella di rovere che abbiamo nel più intimo nostro – Est, est, est possiamo ripetere col barone Giovanni –: col tempo l’abboccato migliora e, sperandolo al lume, è limpido e prezioso rubino, delizia degli occhi a mirarlo e contento dell’animo per il bravo fattore.
Ancora e per molto vorrei stare con voi, nostalgico della vita che ancora vi arde nel cuore, pur entro le anguste mete del tempo terreno. Perché è bella, perché è un sole, un tepore aprilino di sentimenti che ci tengono stretti, uniti in cordata mentre passiamo il gran Pian delle Nevi pien di crepacci. E quando anche voi sarete con me, in questo umbratile mondo, capirete che il ben della luce là sopra, sul mondo, è concreta manifestazione di Dio, che si adatta per esser visto e compreso a quel fango, a quella carne di cui Egli stesso ci ha rivestiti.
E ancor lo ringrazio per il dono della fede con cui mi ha sempre sorretto: pensiero sempre a Lui anelante. A Lui rendo oramai, nell’azzurro fazzoletto che avevo da bimbo – azzurro come gli orizzonti verso i quali quella piccola vela, legata in testa con quattro piccoli nodi, m’aveva sospinto nel mio viaggio terreno –, il prezioso fagutí de föc , il fagottino di fuoco e cinigia che ho portato con me per tutta la vita. E sarà come quando portai a tre anni, pensandolo dono gradito per mamma e papà, le braci rosse e pulsanti di un focherello de dàde e bratì.
Rendo anche la speranza: infatti, che voglio di più? Ed ho anche compreso che invece che corroborare, contraddice la fede. Perché ne abbiam fatto un principio e più non la viviamo come santa virtù, come umanissimo anelito al cielo. È ora principio di legittimazione dei nostri utopici castelli in Ispagna, pretesa che esige come fosse un diritto la realizzazione di quanto ci passa per la testa, dei nostri “piccoli sogni ad occhi aperti”.
Ed ecco anche la carità, quel modo gentile e gratuito d’aver cura dei bimbi e dei grandi, che riempie il cuore d’una gioia benefica, di spirituale pienezza, di francescana allegrezza. Grazie per questo dono di cui già in terra sono stato remunerato a dovizia.
Ed ora, fra poco, anche questa mia ombra solo un soffio sarà, che la Sua bocca nell’etere alita per ricreare, rimestandola nel grande laveggio del mondo, la materia e lo spirito.
Che siamo, in ultimo, noi? Evanescenti parole dalla sua bocca disperse nel mondo come variopinte, leggere vanesse, lemmi d’un dizionario divino che ci parla del vivere, soggetti d’un inconiugabile Verbo, frasi di un messaggio che ha bisogno di noi per avere un senso compiuto; parole scritte coll’inchiostro di seppia che siamo, per esser a noi stessi ben chiare e leggibili.
Amo, amo, amo questo ciclo d’eterni ricorsi; mi divertono le capriole di questo carnevale in cui tutto è mischiato, le carole di danza in cui tutto è contrario. Mi sento un vario arlecchino, un Gioppino di Sanga sul teatro del mondo; inerte burattino senza vita abbiosciato se non avessi la mano di Dio al posto del cuore, le sue dita che fanno da braccia al mio agire e il suo indice che mi tocca su in alto la vôlta del cranio.
Non so dove sono in questo momento, forse ben nell’Eden mio caro, nella Corte Celeste ove rivedo l’adorato mio nonno, tutte le care mie donne di casa e gli avi che ora anch’io sono... «O gran bontà degli Esinesi antiqui».
Dentro forse le menti di ognuno di voi, dove ad una ad una ho versato queste parole d’argento, nel non-luogo di ogni Utopia...
… Mi basta d’esistere. Non importa la forma. E grazie anche a voi ch’esistete.
Da qui non possiamo altro che farvi del bene: questo è il nuovo vestito che la Vita ci ha dato. E vogliamo che anche voi facciate del bene. Se talvolta a qualcuno di notte tiriamo i piedi nel letto, non è per fargli un dispetto, ma per farlo riflettere, che risoluto si volga a fare del bene.
Quella fede che negli anni mi è stata dolce compagna, che sempre mi rammemorava del cielo – ora lo vedo – era la costante e coraggiosa ricerca del bene. Riconoscetelo, nei mille modi in cui sa camuffarsi, nei mille modi in cui sa allettarvi e sedurvi, nelle persone che vi hanno dato la vita, che vi hanno scelto per passare insieme la vita, che hanno visto nell’amore per voi un fidato segnavia per giungere al Bene.
Bandite da voi ira e rancori. Riempitevi il cuore di bellezza e di bene, sia il sangue che vi scorre nelle vene, la primavera nell’ampio cielo che avete aprico nel petto.
Così non vedrete la differenza fra prima e dopo, vivrete della stessa continua vita. L’ordito d’un arazzo prezioso guardato al rovescio ci appare confuso, intricato come un roveto; ma passati per l’angusta burella che ci costringe ad abbandonare in un angolo quale sigla d’artista le spoglie del pacifico ciuco cui abbiam fatto da soma per tutta la vita (dall’esilio d’Egitto fino alle porte della Gerusalemme celeste), voliamo, pasquali farfalle, a veder quali stelle nel disegno sul dritto la Provvidenza da sempre ha riserbato per noi, nel mentre giorno per giorno si camminava lungo la via vera della vita. Impresse col fuoco dell’antico roveto, vi leggeremo le sillabe ineffabili del divino Discorso, mistico incipit per la buona novella che san Giovanni con greco comune ha distillato per noi.
Dio è “presente”, pervade il tutto e il nulla, il prima e il dopo. Finalmente si disvela la divina armonia di tutte le cose. Ci ha fatto dèi al pari di lui: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza».
Il Maligno è pietra d’inciampo lungo la via; ci ha insinuato che eravamo inferiori per farci combattere contro di Lui, per emularlo, per sbarazzarci di Lui con la lusinga che saremmo più liberi. E se per caso a volte pensiamo che il mondo sia pieno traboccante di male al punto di dubitare di Lui, da volerlo bandire dal mondo, Egli anche questo consente per farci al fondo convinti della gran differenza, che forse non capiremmo se già godessimo del seno d’Abramo.
Ma Lui non combatte con noi come fece una volta con Giacobbe-Israele. È amore e non può farci del male, non può odiare. Ci ama al punto d’aver dimostrato, mandando Gesù, d’aver sconfitto il dubbio diabolico della morte, che ci perseguita da quando siam nati.
Ci ama, avendoci dato di provare, attraverso l’amore, attimi fuggenti di paradiso, d’estasi, d’abbandono e d’oblio: un saggio di un’esistenza trasumanata e fuori dal tempo.
E se anche noi, folli, osiamo talvolta abbandonarlo e salir con altri folli su un guscio di noce alla ricerca d’altri mondi illusori o terrestri, Lui mai ci abbandona. Per questo, fin dall’inizio ci ha tolto fuor dalle nostre umane incertezze, dagli ambagi dell’umana favella, dalle ambasce dell’ultima sorte, creando le margherite con tutti i petali bianchi: ammirandone una fra indice e pollice, incantati a vedere quel sole nel mezzo e il bianco cielo giro-giro all’intorno, par che ci annunzi e sempre ripete la divota parola che ci fa semplici e santi: «io t’amo».
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E stato piacevole conversare con voi. Questa che vi ho raccontato è stata la mia vita. La stessa che continuo sereno, contento e pasquale tuttora in questi prati albicanti d’asfodeli, in questi broli ridenti e luminosi del paradiso.
Un abbraccio,
aff.mo vostro
Oberto
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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010Copyright © 2009 - Vittorio Volpi
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