Oberto Ameraldi: Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 265-293. |
7.6. La Spagna (parte sesta)
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La DIE, la Direzione generale Italiani all’Estero, aveva già predisposto il viaggio in aereo, e sarebbe stata per me una bella emozione. All’ultimo minuto, su richiesta del funzionario dell’ Ala Littoria, cedetti il mio posto a un altro passeggero. E mi andò bene, perché all’arrivo all’aeroporto di Barcellona, l’aereo ebbe un incidente abbastanza serio durante l’atterraggio.
Feci il viaggio in treno come al solito, via Ventimiglia-Irun. Arrivai a San Sebastián il giorno 7. In Consolato venne predisposto il programma della visita in ogni dettaglio, d’intesa con le autorità spagnole. I dettagli prevedevano anche alcuni “leggiadri fiori colti nel ben curato giardino del corso di italiano che rallegrassero le riunioni di convivialità”. Alla graziosa bellezza di uno in particolare di questi fiori lo stesso ministro non fu indifferente, tant’è che volle personalmente ringraziarmi.
Ciano arrivò a Santander alle 11 del 13 luglio, sotto i rovesci di una pioggia insistente. Le strade erano gremitissime di Italiani e di Spagnoli, che salutavano il passaggio del ministro con slogan e ovazioni. Il corteo si avviò verso la zona delle operazioni belliche. Ciano visitò alcuni cimiteri: Entrambas Mestas, Espinosa, Corconte e quello che si trovava lungo la strada verso Burgos e l’ossario al Puerto del Escudo. Nel pomeriggio, prima di ripartire per San Sebastián, insieme all’ alcalde visitammo al Sardinero l’elegante spiaggia che prende il nome dalla pesca alle sardine, attività prevalente della città il luogo dove la municipalità di Santander voleva ricordare con un monumento il contributo determinante delle truppe italiane alla liberazione della città. Feci da interprete fra l’ alcalde e Ciano per oltre mezz’ora.
A San Sebastián, dove al suo arrivo Ciano aveva avuto un colloquio di due ore con Franco, ci fu un grande pranzo di gala, offerto dal Caudillo. Il giorno dopo il nostro ambasciatore, Viola di Campalto, restituì la cortesia. Fu presente anche Franco. Conservo ancora il biglietto d’invito: su di esso raccolsi l’autografo dell’ambasciatore giapponese e consorte e di Pilar Primo de Rivera.
Le tappe successive del viaggio di Ciano furono Madrid, Toledo, con vista all’Alcázar, al generale Moscardó e al cardinale Gomá, e infine Siviglia, da dove sarebbe rientrato in Italia.
E in Italia rientrai anch’io, ai primi di agosto, per terminare le mie vacanze interrotte da questo avvenimento importante e straordinario. Nel frattempo mi raggiunse la nomina a Commendatore dell’ordine della Corona.
Prima di proseguire, permettetemi una piccola digressione sui cimiteri di guerra.
Contrariamente agli Spagnoli, noi Italiani eravamo molto più solleciti nella pietosa cura delle spoglie dei nostri caduti. Il primo monumento fu inaugurato a Viana – città già nota al Guicciardini – dal generale Bergonzoli il 17 ottobre 1937, nella Plaza de los Fueros, murato in un angolo della chiesa di Santa Maria. Due semplici stele, con i nomi dei mitraglieri della «Littorio» e dei «fratelli spagnoli» «incisi nella bianca pietra», fra cui la medaglia d’oro alla memoria di Carmelo Palella, caduti il 23 agosto a Sopeña: «a volte solo l’arma fu testimone del sacrificio del mitragliere, che volle morire per salvare quel pezzo d’acciaio».
La zona della Cordigliera Cantabrica, teatro di molte sanguinose battaglie, era disseminata dai piccoli «cimiteri di guerra in vista del mare Cantabrico, e la custodia – come diceva la formula di rito – era affidata alla cavalleresca cristiana pietà del popolo spagnolo»: così alla Vega de Paz, a Soncillo, ad Entrambas-Mestas. Il Padre francescano Pietro Bergamini, fu l’infaticabile animatore della raccolta delle spoglie dei nostri caduti – oltre quattro mila. Col tempo le spoglie vennero riunite in ossari più grandi.
Il grande ossario del Puerto del Escudo, dove era stata combattuta un’asperrima battaglia, riunì le salme di tutti i legionari caduti nel corso dell’avanzata su Santander. Ma anche questo ormai è chiuso ed ora i caduti riposano nel grande ossario di Saragozza. Il disegno dei due monumenti sono del tenente Carlo Bosi, che conobbi personalmente quando era accantonato al Balneario di Corconte.
L’ossario al Puerto del Escudo ha la forma di una piramide a gradoni. L’ingresso è costituito da una imponente «M». Sul lato ovest un’iscrizione ricorda gli avvenimenti dell’agosto 1937, con un gioco di parole inevitabile con la parola «scudo»:
SCUTUM
ENSE
FRACTUM
IBI CONFREGIT POTENTIAS ARCUUM
SCUTUM
GLADIUM ET BELLUM
Iscrizione che approssimativamente significa: «Lo scudo [fu] infranto dalla spada. Qui s’infransero le frecce degli archi, lo scudo, la guerra» con un’evidente allusione al fatto che la battaglia di Santander, sfondando lo scudo naturale della catena cantabrica e della difesa repubblicana è stata decisiva per la “liberazione” del Norte, e rappresentò una tappa importante anche per l’intera cruzada (la citazione del salmo 75 – Ibi confregit... – ricorda un episodio biblico nel quale Dio intervenne direttamente a favore del popolo ebreo).
Ritornai a Santander all’inizio dell’estate del 1959, in un viaggio con mia moglie Margherita. Volevo che vedesse anche lei i luoghi dov’ero stato e di cui le avevo narrato mille episodi.
In centro a Santander un vigile, un giovanottone dall’espressione ferma e pur cordiale, ci invitò a accostare con decisa insistenza: noi non comprendevamo il motivo, ci pareva di essere in regola. Smistato il traffico, si avvicinò alla macchina, la nostra 600 nuova, ci spiegò che ci aveva fermato perché aveva visto la targa BS di Brescia; bastò qualche battuta per scoprire che ci conoscevamo: era Enrico Zanella, che abitava da anni in città; da ragazzino veniva spesso alla Casa del Fascio. Allora mi chiamava “capitano”, per via della divisa. Vi furono grandi feste e abbracci. Avevamo molte cose da raccontarci, molti ricordi da rivivere.
Il viaggio nella memoria ebbe una tappa importante: il Puerto del Escudo. Arrivammo di mattino, piuttosto presto: il lato ad occidente, dov’era l’iscrizione, era ancora in ombra. Visitiamo i dintorni, ammiriamo il panorama, il Balneario di Corconte col lago artificiale Embalse del Ebro, il piccolo villaggio di Corconte, davvero solo quattro case. Un concio della piccola chiesa reca ancora graffito profondamente un perentorio “A noi!”. Verso l’orizzonte indicai Fontibre, le Fonti dell’Ebro, meta consueta di spensierate gite scolastiche.
Ritornando al monumento chiesi a Margherita, e lo chiedevo anche a me stesso, chi fossero i visitatori: «Persone che hanno fatto la guerra qui suppongo». «Come il generale Bergonzoli, come i legionari che tornavano a Santander da Teruel, da Saragozza, da Barcellona durante una licenza, per portare un saluto con un nodo in gola sulla tomba degli amici caduti. Ed ora noi, io».
Mi tornavano alla memoria la solenne inaugurazione, nel luglio del 1939, la grande commozione provata, i discorsi ufficiali, il clima denso di promesse, progetti e ideali per gli anni a venire. Una parte dell’Italia e della Spagna avevano qui le loro comuni radici. Quel marmo, quelle povere spoglie mantenevano viva la morte: ecco finalmente un senso anche per me del motto sfrontato del generale Astray. Ma che eroi erano quelli che lì riposavano se il loro sacrificio ben poco ormai diceva alla nuova generazione? Avevano dato generosamente la vita per un ideale, avevano dato ciò che di più prezioso potevano avere. Ma chi si ricordava di loro: vecchi nostalgici disorientati dall’euforia “democratica”; giovanotti esaltati in cerca di un padre in astratto da venerare come un eroe.
Anno dopo anno, inarrestabilmente, i vecchi legionari svanivano nell’oblio oppure, deliberatamente, venivano dimenticati, perché la loro “presenza” era ormai divenuta scomoda, imbarazzante. In venti anni gli ideali erano sicuramente cambiati, ma a quegli uomini andava ancora tutto il mio profondo rispetto, la mia grandissima riconoscenza.
Il sole era salito un poco più in alto nel cielo ed illuminava di luce radente l’epigrafe, che ora si poteva leggere con facilità. E mentre la rileggevo, cercando di ricordarne la traduzione, ero catturato dall’apparente controsenso: quello stesso sole che man mano sorgendo allontanava le ombre dal piano della lapide e rilevava di luce i contorni delle lettere ivi scolpite, facendo in tal modo parlare nei secoli la pietra, seppelliva di un giorno ancora, sotto nuova nebbia d’oblio quella stessa memoria; con questo respiro di alba e tramonto, di memoria ed evanescenza compiva e rinnovava la storia i suoi corsi e ricorsi.
«Così – pensavo – un fatto diventa classico: il ricordarlo continuamente lo rende insieme più vecchio e più attuale, più noto e sempre più da approfondire». In quel controsenso era tutto il senso della storia. Dei monumenti. Delle visite che si rendono ad essi. Per questo ancor oggi mi vien d’esclamare: poveri legionari! Ed anche: Poveri miliziani! Voi che coi fatti avete lasciato un messaggio: por mejor decirlo mejor lo hizo “per ben dirlo, miglior l’ho fatto”. È talmente mutato il mondo, da sé, o voi stessi avete contribuito a che cambiasse così rapidamente?
Mi chiedevo se esistessero ancora ideali tanto alti che per esser tradotti in azione bisognasse attraversare il mare della morte e della rinascita, per i quali fosse ancora bello il morire.
«Ci guidano dall’alto i nostri morti | Caduti all’alba della gioventù» cantavo da Avanguardista a Torino. Per chi facciamo monumenti, oggi? Ma se è così, come sarà il nostro avvenire? E continuavo a canticchiare fra me:
Capelli al vento, alta la fronte
Marciamo uniti contro all’avvenire.
Sorride infatti l’orizzonte
che noi guardiamo sfidando il sol.
Prima di riprendere il viaggio recitammo un Requiem: quelle parole penetravano a fondo nell’animo, colmandolo di senso, di cupa amarezza e di tutta la forza d’uno stretto legame, un enlace che mi riportava con la memoria e col cuore a quegli anni, a quegli uomini.
Da una parte Requiem aeternam. E pensavo: «sì, statevene in pace, che nessuno venga a disturbare il vostro eterno sonno di uomini»; ma insieme anche et lux perpetua luceat eis, «vi illumini quella luce che di tanto supera il povero nostro ricordo, come il sole annulla il barlume tenace del lumino che accendiamo a vostra memoria».
Il ritmo cupo dei timpani del Requiem di Verdi, le voci potenti e vibranti del coro mi riecheggiarono per un istante nella mente: e pensavo che non tutto quel che a volte si sente nel cuore riesce ad entrare in una battuta, in una serie di note scandite: non tutto dicono le parole; e i monumenti sono solo segno, richiamo, memento , trascendenza, fuscello che agita l’acqua dei ricordi e dei sentimenti che col tempo si son fatti stagnanti: il resto è nostro retaggio, nostra presenza. «Il est mort pour ce qui nous fait vivre» cantava Paul Éluard in una poesia dedicata al partigiano francese Gabriel Péri e per gli stessi valori ha bruciato la propria ardente vita il coscritto De Rosa.
Come al solito, negli ultimi giorni di vacanza, arrivò il laconico telegramma dalla Direzione dei fasci all’Estero:
Siete trasferito per servizio a Gerona (Barcellona). Assicurate immediata partenza. De Cicco.
Intervenne da San Sebastián il Console Giusto del Giardino per la mia riconferma a Santander. Il 25 di settembre, un telegramma da Roma mi ordinò: «Sospendete partenza Gerona. Attendete ulteriori ordini». Recuperai i giorni di vacanza non goduti a luglio e rientrai in Spagna solo il 19 di ottobre. In Aeroplano! La nuova destinazione era Pamplona. Allora contava circa 60 mila abitanti.
Penso che nel trasferimento abbiano giocato un ruolo non secondario due motivazioni, a mio avviso trascurabili: avevo preferito la grammatica italiana di L. Ambruzzi edita dalla Utet a quella pubblicata in Spagna da Antonio Fantucci, predappiese, tecnicamente pessima e infarcita solo di brani propagandistici; in secondo luogo non avevo sufficientemente familiarizzato con i due colleghi tedeschi che pure operavano in Santander.
Nel frattempo era stato nominato ambasciatore presso il governo nazionale il generale Gambara, già comandante del CTV .
Le cose non cambiavano solo per me: il 31 ottobre Ettore Muti veniva nominato segretario del Partito Nazionale Fascista. L’avevo conosciuto due anni prima, all’Hôtel Maria Cristina di San Sebastián, appena giunto in Spagna. L’avrei rivisto l’anno seguente al «Club Marittimo» di Santander. In quelle due occasioni ebbi modo di apprezzare il suo amore per l’Italia, la sua arditezza e un certo savoir vivre . Ma certo immetteva nella vita del partito e al vertice della politica quel tono spregiudicato, direi quasi “futurista”, e quel suo febbrile attivismo nelle “imprese” che, ottimi ingredienti in tempo di guerra, risultano eccessivi e teatrali in tempo di pace, anzi, conducono inevitabilmente verso un esito in cui solo personalità come Ettore Muti possono trovarsi a proprio agio, non certo un popolo intero.
Mi dispiaceva interrompere il lavoro iniziato a Santander. Mi dispiaceva soprattutto sapere che il Fascio locale si era fuso con quello di Bilbao, e che perciò non poteva avere l’autonomia di prima. Quanto lavoro sprecato!
Con me se ne dispiacevano anche cari amici e collaboratori. Carlos Ruiz, Capo Provinciale della Falange, scrisse al suo omologo della Navarra una bellissima lettera di presentazione. Il direttore del «Diario Montañés» mi presentò ai colleghi di «Arriba España»; Jesús Carballo, direttore del Museo Prehistórico di Santander, amico mio e degli Italiani, si dispiaceva del mio cambio di sede. Ma la più commovente fu senz’altro quella del collaboratore consolare José Aparicio Hoyos, vedeva vanificato il frutto del suo lavoro e la bandiera italiana veniva ammainata.
Pamplona, più di Santander, era dominata da alcune figure molto influenti, appartenenti alla oligarchia conservatrice. La vittoria di Franco aveva permesso loro di raccogliere larga messe di onori, privilegi, cariche. Contrariamente all’Italia e alla Germania (viste con gli occhi di oggi), dove si poteva forse pensare che il fascismo avesse assorbito lo stato, a Pamplona e nella Spagna franchista i circoli oligarchici e conservatori avevano al contrario assorbito il fascismo, facendosene strumento della propria preminenza, di esclusiva egemonia, di potere.
Una di tali figure era il vescovo, Marcelino Olaechea. Insieme al vescovo di Palma di Maiorca, fu il primo prelato ad appoggiare il movimento di Franco. Fu anche costante collaboratore del primate Gomá nella stesura della Carta colectiva.
I movimenti monarchici, carlisti e alfonsini, il 31 marzo 1934 – nell’imminenza del “biennio nero” di Gil Robles – avevano preso contatti a più riprese con Mussolini, con la mediazione di Italo Balbo, ottenendo armi e “aiuti” per un’insurrezione antirepubblicana. Facevano parte della delegazione monarchico-militare Antonio Goicoechea per Renovación Española (il movimento di Calvo Sotelo, che voleva riportare in Spagna Alfonso XIII , esule a Roma), il tenente generale Barrera, l’ex-integrista Rafael Olazábal e Antonio Lizarza per Comunión Tradicionalista (carlista).
Giovane anima del movimento carlista a Pamplona era l’attivissimo Jaime Del Burgo. Fu uno dei miei primi amici, aveva quattro anni meno di me. Aveva già scritto diversi libri, soprattutto drammi per il teatro, dirigeva una rivista, l’«AET» (Agrupación Escolar Tradicionalista), era istruttore per sottufficiali ed aveva egli stesso il comando di un raggruppamento di Requetés. Aveva un senso spiccato per la politica, vivendola dall’interno e da protagonista, e una capacità sorprendente di intuirne gli sviluppi. Probabilmente suo è il commento politico alla nomina di Fal Conde a Secretario General de la Comunión, il 3 marzo 1934, da parte del re Alfonso Carlos: «Creemos que ha comenzado la guerra civil». Qualche numero dopo si fa interprete di tutti i giovani carlisti, che come lui non vedono l’ora «de la gran batalla para caér sobre Madrid».
Fu lui a introdurmi nei vari ambienti ufficiali della città, a farmi conoscere l’anima della Navarra, a spiegarmi il significato della tradizione cattolica, e infine a parlarmi di Fal Conde.
Avevo bisogno di tutte queste notizie, perché uno dei miei compiti a Pamplona, oltre a tenere il corso di italiano, era di curare le relazioni tra le nostre autorità ed il vescovo della diocesi della Navarra.
Il 14 novembre venne inaugurato a Madrid l’Istituto Italiano di Cultura diretto da un giovane (35 anni) e coltissimo docente di filologia romanza dell’Università di Napoli, il prof. Salvatore Battaglia. Il più grande dizionario della lingua italiana, previsto in 20 grossi volumi, a tutt’oggi non ancora terminato, porta il suo nome. Era in un certo senso il mio “superiore”, dovevo chiedere a lui, infatti, e non più al console l’autorizzazione per spostamenti fuori sede.
Mio primo incarico a Pamplona fu concordare un incontro fra il vescovo e il console, che ebbe luogo martedì 5 dicembre 1939. A seguito della visita, il vescovo chiese se potevamo farci da tramite per la fornitura di un’automobile Fiat. Costava 450 dollari (circa 9 mila lire di allora) oltre a 1800 pesetas per lo sdoganamento. In febbraio la concessionaria FIAT HISPANIA di Madrid ci consegnò la macchina, ma dei dollari promessi per il pagamento non vedemmo nemmeno l’ombra.
Fu inaspettatamente l’occasione per rinverdire vecchi allori camuni. La sede della concessionaria era in Paseo de Ramón y Cajal, lo studioso di istologia che nel 1906 condivise col nostro Camillo Golgi il premio Nobel per la medicina. Piccolo il mondo!
E a proposito di regali, in quello stesso mese di febbraio, tramite il consolato, feci pervenire alla biblioteca della Deputación i 36 volumi dell’Enciclopedia Treccani. I giornali locali, «El Pensamiento Navarro», quotidiano carlista, e «Diario de Navarra» del giorno 24, pubblicarono la notizia in prima pagina, con grande rilievo.
Non fui così fortunato come a Santander con l’alloggio: dovetti stare a pensione all’Hôtel Avenida, in Avenida de Saragoza, n. 5, all’angolo con calle Leyre, poco distante dalla grande Plaza Principe de Viana, a due passi dal centro. Un albergo che esiste ancora, completamente rinnovato.
Mi ricordo un episodio curioso, occorsomi il giorno che mi sono presentato in banca per firmare un documento. Un amico che mi accompagnava mi guardò con un certo imbarazzo vedendomi firmare con un solo cognome: è d’uso infatti aggiungere al cognome del padre quello della madre; perciò chi ha solo un cognome è da ritenersi figlio illegittimo. Chiarite le diverse consuetudini onomastiche, quel caro amico mi consigliò di firmarmi sempre Oberto Ameraldi-Guadagnini, per salvaguardare il decoro personale, almeno negli ambienti ufficiali.
Gli studenti del corso di italiano erano poco più di quaranta, e li divisi in due classi. Le lezioni si svolgevano di pomeriggio dalle 17 alle 19 il lunedì, mercoledì e venerdì nella sede del liceo, proprio di fronte alla cattedrale e al vescovado.
«El Pensamiento Navarro», mi tributò un cordialissimo benvenuto al mio arrivo, esagerando per atto di cortesia, come fanno sempre i giornali, le mie buone qualità: «cultíssimo profesor»? Per carità!
Lo stesso giornale, due mesi dopo, annunciava il mio rientro a Pamplona dopo le vacanze di Natale. Non mi sembrava poi una grande notizia! O era il pretesto per rinnovarmi dei complimenti? Se vi capita di leggere quel trafiletto troverete la conferma che i giornali spesso esagerano.
Non meno gentile fu «Arriba España», il quotidiano della Falange. Nel mese di marzo l’agenzia Reuters aveva diffuso la notizia di un «pretendido desembarco Italiano en Cartagena». In tono simpaticamente scherzoso, il giornale avvertiva i lettori che
si les dicen que en Pamplona hay dos divisiones de Italianos, no lo crean. Nuestro grande y buen amigo Ameraldi que es un baluarte claro, decente y selecto de la cultura Italiana, non va vestido de “división”, por la calle. Y los helados Italianos que volverán dentro de unos días, no tienen el menor aspecto bélico, si no es el de esperarlos como a Mambrú, o en la Pascua o en la Trinidad.
Famosi gelati italiani! La gelateria più rinomata era quella della famiglia veneta di Eugenio Bez e Maria Fontanella, giunta da poco a Pamplona da Zarauz, nella provincia di Guipúzcoa.
La signora Maria conserva tutt’oggi un vivo e ottimo ricordo di me, come io di lei del resto. Eravamo giovani entrambi: è facile a quell’età essere cordiali, coltivare le amicizie, farsi voler bene da tutti. Soprattutto quando non ci si occupa di politica. Fu appunto conversando con lei che mi accorsi di quanto fosse stata gravosa ed estranea dal mio carattere la responsabilità di rappresentare il Fascio.
Oltre al resto, le sono grato perché ha saputo tenere un “segreto” che ora non ha più motivo di sussistere: frequentando la biblioteca della Deputación una giovane donna, distinta e di buona famiglia si era innamorata di me. Sapendo quanto fosse precaria la mia permanenza a Pamplona, non potevo crearle lusinghe. Già da Santander mi ero fatto il proponimento di non casarme se non con un’italiana. Sebbene a malincuore, ma in modo molto fermo, mantenemmo i nostri rapporti nell’ambito di una fraterna e cordiale amicizia.
Avevo molto tempo libero. Facevo escursioni nella provincia. Ho visitato Roncisvalle, molti piccoli centri baschi. Frequentavo la biblioteca della Deputación Provincial, dove leggevo libri e documenti d’archivio sulla storia di Navarra. “Scoprii” il Valentino, e ciò mi fece nascere la curiosità di vedere Viana e i luoghi della sua ultima battaglia. Scrissi anche un articolo che inviai a «Scuola Italiana Moderna».
Scoprii soprattutto il popolo Basco, cordiale, allegro, sereno; amante delle sfide in cui si mettano in evidenza forza fisica e resistenza (un harrijasotzaile ad esempio è lo sportivo che solleva grosse pietre; sokatira è il tiro alla fune; idiprobak è la tradizionale gara fra buoi). E oltre a questo un museo vivente della preistoria europea, antecedente l’arrivo degli Indoeuropei.
La quercia di Guernica, simbolo della libertà e dell’autogoverno basco, è stata piantata secoli prima che fosse inventata la democrazia nelle città-stato greche, prima della Magna Carta, prima del federalismo svizzero, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino … Penso che potrei anche generalizzare e aggiungere: prima di qualunque esperimento di libertà e convivenza civile. Ma naturalmente le nostre odierne società sono troppo orgogliose dei propri traguardi per ammettere di aver imparato qualcosa da altri.
Condividevo con l’amico Agosti sentimenti “antiborghesi”, è vero; le “democrazie plutocratiche” non vedevano di buon occhio il regime italiano: altrettanto erano invise a me per la loro grettezza, perché avevano messo in secondo piano lo spirito, l’anima autentica del popolo. Vedevo al contrario che i Baschi si sentivano uniti proprio perché erano consapevoli degli alti valori spirituali sui quali si fondava la loro società. Non si trattava di una democrazia formale, una democrazia del 51%, ma un vero governo del popolo. È un po’ romantico tutto questo, lo ammetto, come romantico fu Wilhelm von Humboldt che nel secolo scorso fece conoscere all’Europa la cultura basca.
Sapevo dei tentativi rivolti al nostro CTV per l’ottenimento di una forma di protezione dei Baschi in caso di resa, artefice il console Cavalletti. Sapevo che Franco era giunto ad uccidere 18 sacerdoti favorevoli all’autonomia e che molti Baschi avevano dovuto prender la via dell’esilio: nel giugno del 1937, prima della caduta di Bilbao, 80 mila persone, donne, vecchi e bambini, oltre a 8 mila feriti, giunsero al porto di Santander, per imbarcarsi. Le province basche contavano poco più di 1.300.000 abitanti alla fine della guerra.
Ciò bastava a rendermeli vicini e simpatici. Inoltre avevo alcuni alunni baschi e la cultura basca era molto presente a Pamplona. Il movimento stesso dei Requetés si può spiegare tenendo conto di questo retroterra etnico-culturale: un grande senso di identità minacciato, e perciò da difendere (la bandiera tradizionale, creata dal leader del nazionalismo basco Sabino Arana nel 1894, la ikurriña, era stata ovviamente abolita); un grande senso della tradizione, dell’unità etnica, della peculiarità della propria storia, senza eroi, senza grandi figure di riferimento, senza episodi da celebrare; un grande patrimonio folclorico, una lingua dalle origini misteriose, incomprensibile e difficilissima che rappresenta uno scoglio insuperabile senza una forte motivazione, senza una grande simpatia e interesse per questo popolo. E soprattutto la grande religiosità.
Ero fermamente deciso a rimanere in Navarra durante l’estate del 1940, ospite di un mio alunno, Francisco Echemendi del villaggio di Erro, a metà strada fra Pamplona e Roncisvalle. Non era una cosa tanto semplice: parlare in basco, pur non essendo proibito, era tuttavia visto con sospetto: poteva risvegliare revanches autonomistiche, così ben sopite dopo l’esilio di Aguirre.
Non nego che mi attirasse anche quel certo alone di mistero, di segreto che stuzzicava la mia curiosità. Ma con lo scoppio della guerra dovetti rientrare in Italia. Da allora ho sempre portato volentieri un basco come copricapo.
Paragoni non se ne possono fare, sono ben consapevole. Ma con i Baschi mi sono trovato subito, e con mia grande sorpresa, a mio agio. Come se reciprocamente si intuisse una affinità di sentire, semplice, schietta, basata sui valori del lavoro, della solidarietà, dell’onestà.
Mi sentivo a casa, come fossi fra le nostre stesse montagne di Valcamonica, quelle aie così simili alle nostre. Certi proverbi contenevano un’arguzia e una perspicacia impressionanti. Perfino alcune creature del folclore erano incredibilmente simili alle nostre: Lamiak, la donna con piedi di animale; Olenzero, una sorta di babbo Natale basco che però non porta doni, è in tutto simile ai nostri carbonai; perfino il gioco di carte chiamato mus, una vera passione, pur diversissimo, aveva analogie con la nostra briscola: si giocava a coppie, e le carte possedute da ciascun giocatore potevano essere comunicate al compagno mediante segni convenzionali.
Ma ciò che attrasse la mia attenzione fu naturalmente la cosiddetta «svastica basca», la lauburu, letteralmente lau “quattro”, buru “teste”; assomigliava piuttosto a due “S” incrociate, non era angolosa come quella tedesca. I Tedeschi avevano adottato il simbolo della croce gammata perché lo ritenevano sicuramente ariano. Dall’altro lato il popolo Basco e la sua lingua erano la testimonianza vivente di una tradizione preindoeuropea: c’era dunque di che sospettare che il nazismo avesse adottato quel simbolo in modo quanto meno affrettato.
Curioso com’ero, raccolsi molte interpretazioni. Alcuni dicevano che simboleggiava le quattro provincie basche (Navarra, Guipúzcoa, Álava e Vizcaya - ma ve ne sono altre tre in Francia: Labourd, Basse - Navarre et Soule) o le quattro tribù basche dell’epoca preromana: Autrigonia, Basconia, Carietia e Vardulia; altri dicevano che stava a rappresentare i quattro elementi fondamentali in coppie opposte: acqua-fuoco, terra-aria; altri ancora assicuravano che significava l’avvicendarsi delle stagioni, il sorgere e il tramonto del sole; il principio maschile (orizzontale) e femminile (verticale); l’unione armonica delle facoltà umane: emozione-intuizione (espressioni femminili), ragione e forza fisica (energie maschili). E si potrebbe continuare.
E quale non fu la mia sorpresa, molti anni dopo, nel vedere lo stesso simbolo inciso sulle rocce di Capo di Ponte: la cosiddetta «rosa camuna».
Dunque, la simpatia che sentivo così immediata e spontanea verso i Baschi aveva radici profonde, che andavano ben oltre la mia capacità di comprensione e di collegamento. Mi bastava sentire in me la forza, la vitalità di questo forte legame.
Sebbene non mi occupassi di politica e fossi lontano dai riflettori della mondanità e degli ambienti ufficiali, mi capitò di essere ambasciatore discreto e inosservato in un abboccamento confidenziale con il leader carlista Fal Conde, che si trovava a Siviglia. Raggiunsi la città al termine di un giro turistico attraverso la Spagna nei giorni della Settimana Santa. L’appuntamento era stato fissato infatti per il giorno di Pasqua, che in quell’anno cadeva il 24 di marzo, a las cinco de la tarde, durante la corrida. Il governo italiano voleva conoscere quale fosse l’opinione delle forze monarchiche, nel caso di una alleanza italo-tedesca. La risposta fu molto precisa e coerente: i carlisti vedevano in Hitler un nemico della religione cattolica, e con lui i suoi alleati. Perciò, nonostante una sostanziale identità di vedute fra carlisti e fascisti, mantenutasi fino a quel momento, era inevitabile interrompere i rapporti di amicizia.
Riferii al console i risultati del colloquio in ogni dettaglio. Egli ne fece un dettagliato rapporto al conte Ciano, che si complimentò per l’ottima riuscita della missione.
Per me furono invece guai seri.
Agli inizi di giugno, Jaime del Burgo, che pure mi aveva fatto da tramite nell’organizzare l’incontro, in via del tutto amichevole e sapendo che non nutrivo simpatie per i Tedeschi, mi avvertì che il Comando Carlista di Pamplona mi aveva condannato a morte, ma mi concedeva 48 ore per lasciare la Spagna. Informato il console, non mi restò che anticipare il rientro in Italia.
Adiós, Pamplona: la fisarmonica e il coro della malinconica canzone mi ritornavano di continuo alla mente, con un ultimo pensiero lanciato alla chica guapa, alla “graziosa ragazza” della biblioteca.
Finita la guerra, cadde anche la condanna pendente. E fui lieto di rivedere i vecchi amici, nel 1960, durante il viaggio che ho già ricordato.
Durante il ritorno, a Saragozza, seppi della dichiarazione di guerra. Provai un senso di delusione e di avvilimento non certo per amore alla Francia ed all’Inghilterra, quanto per il gesto vigliacco che ci portava ad impugnare le armi contro degli avversari creduti (quanto erroneamente abbiam constatato poi) moribondi.
Mi fermai qualche giorno a Barcellona, dove fui lieto di incontrare per l’ultima volta l’ingegnere Almagià, e poi mi lasciai la Spagna definitivamente alle spalle. Era il 15 di giugno: sulle Alpi Occidentali già si combatteva.
Pur certo che non l’avrei mai usata, mi dava una certa sicurezza sapere che nella valigia avevo una pistola automatica Astra a nove colpi che mi portavo in Italia come preda bellica.
Tutti questi episodi, così strani, così emblematici e incisivi hanno segnato gran parte del mio carattere. Guardando a quegli anni ora mi rendo conto che i miei trent’anni mi davano tutta l’energia e anche quel poco di coraggio misto ad avventatezza che sono necessari per far fronte “di petto” a situazioni talmente tragiche ed estreme. È per questo che ancor oggi ricordo quei fatti così vividamente.
«Non ho visto mai ridere come in Spagna. Noi siamo complicati, nervosi, leopardiani. Anche nella gioia viva del riso, come nella subitanea, misteriosa paura collettiva, si ritrova l’ingenuità di un popolo bambino.
Certo è che gli spagnoli sono simpaticissimi. Chi ha vissuto in Spagna, chi vi ha vissuto a contatto col popolo nell’ora in cui la vita, in faccia alla morte, non mentisce a se stessa, sente che vi ha lasciato molta parte, forse il meglio dell’anima sua».
Appena rientrato in Italia contavo di essere mobilitato nella Milizia, ma attesi inutilmente per l’intera estate.
Il 12 luglio, dopo lunga malattia, moriva il curato don Alberti, era ad Esine dal 1904. Fu il curato di tanti monelli e bravi ragazzi della mia generazione. Per molti di noi i sacerdoti hanno significato epoche, atmosfere, ricordi d’un tempo, tappe nella vita. Verso la fine di novembre arriverà il nuovo curato, don Innocenzo Bontempi, al cüradì, di Berzo; la famiglia abitava oltre il Grigna, ai Pràcc de Guài.
Passai poi quell’estate, come al solito: gite in montagna (con l’amico Luigi Ceriani di Roma quell’anno si fece la traversata del Pian di Neve con una ragazza Cremonese, Cesarina, conosciuta al rifugio), vari colloqui nel brolo di don Sina e poi alla Colonia “ XXVIII Ottobre” di Cattolica, iniziata quell’anno con qualche settimana di anticipo, il 1° giugno.
La presenza in Italia di così numerosi figli di italiani all’Estero (circa 1.800 distribuiti in otto “navi”: Rizzo, Ciano, Sauro, D’Annunzio, Graziani, Corridoni, Baracca, Badoglio, oltre all’“Ammiraglia”) assumeva un carattere patriottico spiccato. Basterà ricordare alcune date di un improvvisato “bollettino” interno:
La Colonia ha vissuto, in ardente unanimità di spirito, tutte le fatidiche ore della Patria:
il 10 giugno, dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra;
il 25 giugno, armistizio di Villa Incisa [ sic ];
il 28 giugno, gloriosa morte di Italo Balbo nel cielo di Tobruch;
il 29 luglio, quarantennio di regno del nostro Augusto Sovrano;
il 29 luglio, nascita a Dovia di Predappio del Duce fondatore dell’Impero.
La disciplina era rigorosa, ma il clima molto sereno. I Fasci di Corfù e di Salonicco avevano mandato una sessantina di ragazzi delle bande musicali locali coi loro strumenti: non mancarono occasioni di sentirle e apprezzarle. Tre mesi dopo avremmo invaso la Grecia... L’avvicendarsi degli avvenimenti dava il capogiro.
Provenendo da paesi così lontani e diversi i ragazzi si scambiavano spesso anche i loro giochi. Un gioco che si diffuse quell’estate fu il ferretto (da noi venne chiamato barbanzè o barbanzèc ): il gioco consisteva nel far fare delle capriole a un’astina di ferro di circa 15 cm . puntandolo a diverse parti del corpo (dita, palmo, dorso, gomito, spalla, mento – barbóh, in dialetto –, ecc.) e cercando di farlo cadere di punta nella sabbia.
In un assolato e caldissimo pomeriggio (domenica 4 agosto) si svolse il solito saggio ginnico sportivo a chiusura del primo turno. In settimana fu distribuito anche un numero unico della Colonia, «Pronti a salpare», di otto pagine. Una strofa di un omonimo inno riunisce molti elementi e simboli dell’atmosfera di quei giorni:
Poi nell’anelito
del movimento,
un grido levasi
al sole, al vento:
“Avanti, Italia!
Avanti, è l’ora!
drizza la prora!
Nessun ostacolo
li può attardare;
tutto il tuo popolo
pronto è a salpare”
Non credo sia sopravvissuta quella modestissima pubblicazione. Ma se avete modo di rintracciarla, troverete anche un mio articolo, Un dono, che occupa l’intera pagina tre. Ecco il passo più significativo, che rende ragione del titolo:
Voglio però darvi un consiglio amichevole del quale mi sarete molto grati un giorno; voglio consigliarvi un dono che nessun denaro vi costa e che è di un valore enorme, incommensurabile. Attuando tale consiglio voi concederete l’unico premio ai vostri istruttori che vi hanno amato e che per voi hanno lavorato in questo mese e sarà il vostro più sincero grazie al popolo italiano fatto di operai e di contadini che avete visto lavorare alacremente nei cantieri e nei campi che si stendono intorno a noi e che vi ha offerto, frutto del proprio sudore questa villeggiatura. […]
Voi dovete offrire a vostro padre, ai vostri genitori, ritornando all’estero, il dono della vostra parola fatta italiana. Parlare italiano , udire i propri figli parlare dell’Italia in italiano è per vostro padre togliersi dalle spalle, per un momento, dieci, venti trenta anni di sacrifici, di lavoro, di lotte in terra straniera e restituirlo di nuovo giovane, quando aveva la ventura di vivere vicino ai propri genitori, ormai scomparsi, nella propria vecchia casa, sotto il cielo d’Italia.
È far ritornare vostro padre ai suoi vent’anni, quando si sentiva, come si sente ogni buon italiano, capace di rovesciare il mondo. Mi direte che è impossibile parlare sempre in italiano. Lo so: avete ragione. Non sempre si può, all’estero, parlare italiano, però mi darete ragione quando vi dico che moltissime volte si evita, quando si potrebbe, di servirsi della lingua italiana. Non è forse vero che in famiglia, al Fascio, al gioco con camerati italiani, adoperate spesso una lingua che non è la vostra?
Non è forse vero che in Colonia, dico in Colonia, avete la triste avvilente abitudine di parlare la lingua dei paesi di provenienza quando potreste usare, imparare ad usare la lingua di vostro padre, quella lingua che è la sola, unica, genuina espressione del vostro sangue?
Le motivazioni che basavano la proposta erano molto semplici, forse troppo scontate, tuttavia sentii il bisogno di ribadirle: la lingua non è solo un mezzo per comunicare, ma fa parte dell’uomo, anzi «è lo scrigno dell’anima dell’uomo […] è la grande, la ineguagliabile costruzione del popolo italiano in quasi 30 secoli di vita e di progresso».
Il caro, fraterno amico Vittorino mi raggiunse coi suoi saluti in Colonia; gli avevo scritto invitando a parlare dell’attività della Colonia sulla rivista «Scuola Italiana Moderna»:
Caro, caro Oberto,
grazie della tua tanto buona. Sapevamo che eri tornato e ti aspettavamo con ansia. Ti attendiamo dopo la colonia.
Ti siamo grati dell’invito che rivolgi a Gherardo per la Rivista. Il nostro amico è stato molto male in seguito ad un infortunio. Ora si riprende, ma ha bisogno di molto riposo. A mezzo il mese verrà a Cattolica, per il solito periodo di riposo. Verrà a trovarti e farà gli articoli.
Tutti ti ricordiamo ed abbiamo per te affettuosi pensieri ed auguri.
Tuo aff. Vittorino
Finì poi anche quell’estate, come al solito troppo presto, lasciandomi solo pochi giorni per rimanere in famiglia e per qualche escursione in montagna.
Ameraldi - Caveat lector by Vittorio Volpi is licensed under a Creative Commons
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Ultimo aggiornamento 17 marzo 2010Copyright © 2009 - Vittorio Volpi
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