Ameraldi - 8.1. A Tunisi durante la guerra Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 295-316.


8.1. A Tunisi durante la guerra (parte prima)

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As time goes by è la famosa canzone del film Casablanca. Vi ricordate degli ufficiali tedeschi, e del comandante della polizia francese che getta nel cestino la bottiglia d’acqua minerale di Vichy? E dell’italiano Ferrari, ricco di espedienti e ben integrato nella società marocchina, al punto da portare un fez? Il film, ambientato in Marocco durante la guerra può aiutare a immaginarci l’Africa settentrionale in quegli anni. Rick, il protagonista, era stato prima in Etiopia e poi in Spagna, aveva percorso quasi le stesse mie tappe, ma “dall’altra” parte. Pure la margherita che portava all’occhiello avrebbe trovato un punto di coincidenza con la mia vita. Nel film non si sente per nulla il rombo della guerra che come una fiammata da El Alamein, a Tobruk, a Mareth stava per raggiungere Tunisi, e lì si sarebbe conclusa.

L’immagine di un contadino col vaglio in mano che separa la pula dal grano mentre infuria la guerra mi è rimasta significativamente nella memoria; dà l’idea di quanto la guerra sia lontana dalla gente - eccettuato il fatto innaturale che tocca ai padri seppellire i figli, come già notava Erodoto -, bisogna attendere alle quotidiane occupazioni; e mano a mano si impara a filtrare i ricordi: solo alcuni sopravviveranno e sono quelli che danno da vivere.

Io stesso non ho voluto ricordarmi di tutto nelle mie Memorie. La maggior parte dei ricordi riguardano episodi di vita semplice e ordinaria, null’affatto eroica. Non correvo il rischio di «fossilizzarmi nella città del Bey», come mi era capitato di pensare nel 1937, tuttavia non ero un militare, non ero a Giarabub. Ricordate?

Colonnello non voglio il pane
dammi piombo pel mio moschetto

E così era per la maggioranza della popolazione araba.

L’anfiteatro di El Djem, grande come un secondo Colosseo, che rammentava agli Arabi «il vaticinio del fatale ritorno di Roma», era chiamato anche il sigillo di Roma. Queste radici che avevamo posto in terra d’Africa ormai da venti secoli, questa «Romanità della Tunisia», costituiva titolo di legittimità della cambiale che stavamo riscuotendo. Il mio lavoro come maestro faceva leva sulle giovani menti, la mia missione era a mia volta di riscattarle dall’arretratezza, mostrando con la mia ferma convinzione, col mio esempio, col mio entusiasmo che i valori del fascismo duravano da venti secoli e tuttavia erano all’altezza dei tempi, che proprio la lunga tradizione su cui era costruito gli conferivano una naturale e salda autorevolezza. La Spagna l’aveva dimostrato. Ritornavo dunque a Tunisi forte di ben due recenti trionfi, con la sensazione che dopo la Spagna e la rinvicita sulla Francia ci saremmo imposti anche in Tunisia.

Lo scrittore tunisino Albert Memmi, nato nel 1920, in un romanzo autobiografico ci ha raccontato di una Tunisi povera e triste, dove gli europei erano visti come «membri di una setta potentissima»:

Oh, città prostituta, dal cuore diviso, chi non ti ha fatto schiava? Quando imparai un po’ di storia, mi vennero le vertigini. Fenici, Romani, Vandali, Bizantini, Berberi, Arabi, Spagnoli, Turchi, Italiani, Francesi e altri che sicuramente dimentico o devo confondere.

Era forse questo dunque il senso da dare al proverbio arabo: “Il Marocchino è un soldato, l’Algerino è un uomo, il Tunisino è una donna”... nessuna meraviglia se la sifilide era diffusa a livelli inimmaginabili.

Qui visse Salambô; e stranamente ritrovavo qualcosa di familiare che non riuscivo a precisare, finché un giorno, ricomponendosi da sole nel ricordo mille tessere raccolte via via, riemerse alla memoria una canzonaccia da caserma, udita mille e mille volte: «Nella città di Brescia, città delle ...», mi tornarono alla memoria i giorni del 1936, quando da poco giunto a Tunisi, ero stato colpito dalla difterite. Appena potei di nuovo uscir di casa, dopo la quarantena, superate le mura della Médina che segnavano il confine fra la città europea e la città araba, mentre percorrevo la Rue Abdallah Guèche, la cui mala fama ancora non conoscevo, svenni. Fui soccorso da due giovani donne. Al mio risveglio, vidi appese alle pareti dell’alcova in cui ero stato trasportato delle stampe a buon mercato con donne procaci e discinte e un inequivocabile cartello con la tariffa oraria (20 franchi).

Quel ricordo mi fece sorridere, e scrollai la testa; proseguendo la mia passeggiata, commentai «com’è piccolo il mondo. Ed ora eccomi di nuovo in questa città - ma quant’è cambiata!».

Non mi sentivo personalmente coinvolto nella guerra, sia perché davo sicura priorità al mio lavoro di maestro, sia perché avendo visti i disastri di Spagna, le fiamme dell’ardore guerresco si erano attenuate a misure più contenute. Ma per molti la guerra era desiderata, la conclusione logica di una tensione ideale e attivistica spinta al parossismo.

«L’Italiano di Tunisi», da brava Cassandra, lo andava ripetendo da due anni: e Giorgio Amendola, nel discorso di presentazione del nuovo quotidiano italiano che era venuto a dirigere a Tunisi («Il Giornale») aveva previsto che le assurde pretese, le manifestazioni fuori luogo e le ingiurie rischiavano di gettare Francia e Italia l’una contro l’altra in un conflitto sanguinoso il cui teatro sarebbe stato la Tunisia e che nello stesso tempo avrebbe condotto l’Italia alla catastrofe. Ma in fondo anche gli antifascisti desideravano una situazione di totale sconvolgimento per portare la loro battaglia al cuore del nostro Impero, perseverando nel proposito che fu già dei fratelli Rosselli “oggi in Spagna, domani in Italia”.

Dall’esito della guerra d’Africa dipendevano le sorti dell’Italia e dell’Europa intera. Anche se erano in molti a pensare che la guerra non avrebbe risolto nulla. Mi correva un brivido lungo la schiena al solo pensiero che l’Italia potesse cambiare, per me era giusta al momento giusto. Il pensiero mi dava la vertigine, mi metteva, come si diceva, “fuori piombo”: il pensiero che le democrazie borghesi e plutocratiche potessero metter le mani sull’Italia era una prospettiva che immaginavo come un salto dalla Córna de Cahtèl .

Ogni mattina, appena entravo in classe, riprendevo forza e coraggio: lì era la mia dimensione, il mio equilibrio, la fonte delle mie certezze, per l’oggi e per il domani.

C’era infatti anche un altro aspetto: dai miei scolari cominciavo via via a imparare direttamente dai fatti, a trarre conclusioni dalla sola esperienza immediata e a dar poco credito a ciò che si sentiva raccontare per strada, si leggeva sui giornali (la censura militare aveva maglie strettissime), a ciò che si sapeva solo per sentito dire; cominciavo sempre più anche a diffidare del buon senso comune, tanto più radicato quanto bisognoso ad ogni occasione di rigorosa verifica: un lavoro di Sisifo. Era molto meno faticoso non farvi alcun affidamento sin dall’inizio.

Gli avvenimenti, del resto, erano troppo grandi e complessi per pensare che potessero essere colti e compresi attraverso l’esperienza pur esemplare di pochi eroici individui.

Ognuno si arrabattava alla meglio per sopravvivere, nel suo piccolo mondo, giorno per giorno, con le persone che volta a volta gli erano prossime. Nulla più di questo. Tale è il senso della mia seconda permanenza a Tunisi: si dice che nell’occhio del ciclone vi sia paradossalmente più calma che tutt’attorno. Ero travolto da questo ciclone, dal precipitare degli avvenimenti bellici, senza protezione di sorta. Facendo semplicemente quel che i fatti stessi mi andavano suggerendo, agii nel miglior modo possibile. E come il Fabrizio della Certosa di Parma che a Waterloo cercava disperatamente di essere al centro della battaglia e correva di qua e di là, non vedendo che si trovava proprio al centro di essa, vedevo e comprendevo solo una minima parte di quel che stava succedendo.

Da autentici borghesi da caffè (è il caso di dirlo, perché sapendo della scarsità di caffè in Italia, si godeva della preziosa bevanda anche oltre il bisogno), il massimo di partecipazione alla guerra che ci fosse consentito, era di commentare quanto i giornali potevano scrivere. Mi ricordo di una schermaglia non priva di una certa vis polemica: quella a lunga distanza fra il generale Bergonzoli, comandante delle truppe in nord Africa, e il suo gregario Davide Lajolo, istruttore di battaglioni “Giovinezza”. Il generale, in una intervista al giornalista Carlo Sandri che esordiva salutandolo come “l’eroe di Bardia”, rimproverava al devoto ammiratore di aver diffuso delle «moleste amplificazioni retoriche». La replica di Lajolo, «legionario dalle ossa dure», che aveva in orrore passeggiare per le vie della città come un borghese, mette in evidenza quanta presa potesse avere l’artificio retorico-propagandistico sull’opinione pubblica e come potesse facilmente determinare un comportamento conseguente:

Niente retorica; non v’è alcuno che, come il soldato, abbia assolutamente bandito da sé ogni retorica. Il soldato non cerca mai le grandi emozioni, né mai crolla davanti alle imprevedute sventure. […] Il soldato sa morire al posto del proprio compagno, ma sa anche non piangere sul compagno che muore. […] In guerra la figura del soldato grandeggia ancora di più. Egli rimane di fronte alla guerra, come quando, contadino, guardava sull’uscio di casa la tempesta. E accoglie le pallottole come accoglieva la grandine che gli dardeggiava il raccolto. Indurendo i muscoli, la faccia contratta, lo sguardo tagliato. […] E quando muore sulla trincea il soldato ha ancora il volto sereno. Anche allora senza retorica. È morto per il suo dovere.

Per parte loro, Mario Appelius e Ardengo Soffici, con la rubrica Giro d’orizzonte, erano sempre informatissimi su quanto succedeva fra le nebbie della perfida Albione.

A Tunisi si continuava a vedere signore in eleganti toilettes, frequentare ritrovi esclusivi come il «Rick» e vivere di quella mondanità un po’ a buon mercato tipica delle città coloniali.

Prima che la guerra iniziasse ad infuriare, noi insegnanti vivevamo in pace e serenità, in una bengodi vera e propria, cui non mancavano la raffinatezza della cucina, il cognac francese ed il caffè a volontà.

Durante i tre anni precedenti, la situazione era andata peggiorando per gli Italiani. Se a me era capitato di cavarmela tutto sommato con un cazzotto (che nel frattempo mi stava fruttando un premio, sospirato, di 2 mila lire), ad altri capitò ben di peggio. Gli antifascisti in volontario esilio all’estero avevano un seguito limitato e spesso erano fatti oggetto di spedizioni punitive di bravacci esaltati.

Nei giorni in cui arrivavo in Spagna, ad esempio, il 20 settembre del 1937, alcuni cadetti delle Regie navi-scuola Amerigo Vespucci e Colombo irruppero, armi alla mano, nei locali del settimanale antifascista «L’Italiano di Tunisi». Era presente soltanto il redattore e amministratore Giovanni Miceli (26 anni), falegname di origine siciliana: fu ammazzato quasi per scherzo con un colpo di rivoltella al cuore. Durante la fuga precipitosa, anche tre cadetti si ferirono saltando dalle finestre. Il caso suscitò profondo sdegno e un’ondata di solidarietà in Francia, negli Stati Uniti e anche negli stessi paesi arabi (i porti della costa africana rifiutarono di accogliere navi italiane per tre giorni). Mi stupì che Mussolini spendesse parole quasi di elogio per l’operato dei cadetti, che a mio parere avevano ecceduto nello zelo, da bravi adolescenti che ancora non hanno imparato il senso della misura nelle cose.

Anche tra noi Italiani ci facevamo dunque del male.

Il nostro «Popolo di Brescia» ne parlò solo nel maggio del ’39 – ero appena tornato per le vacanze estive –: fui attratto e incuriosito dal titolo Tunisi... nel covo dell’antifascismo a grandi caratteri in centro paginaVenni poi a sapere di un episodio penoso capitato proprio alla «Principe di Napoli»: se fossi stato presente avrei fatto fuoco e fiamme: certe ingiustizie mi mandavano in bestia. Era la mattina dell’11 di gennaio del 1938, da poco era passata la “Befana fascista”; – riferisco le precise parole dell’«Italiano di Tunisi» del 30 gennaio –:

Si presenta al portone della Scuola Principe di Napoli una donna. La riceve un’inserviente che le domanda:
– Che cosa volete!
– Vorrei parlare con il signor direttore.
– Per quale motivo?
– Non lo devo dire a voi!
– Non avete educazione, non mi si dà del voi.
– Perché? Come devo dire?
– Finiamola! Che cosa volete?
– Vorrei parlare con il signor direttore; gli devo domandare perché non hanno dato le scarpe a mio figlio. Io sono una povera donna, e mio marito non lavora da tanto tempo...
– Ve le dobbiamo dare per forza le scarpe? Andate! Andate!
– Dio vi pagherà la vostra arroganza! –, le dice la donna, e se ne va.Così sono trattati i bisognosi che chiedono assistenza.
Intanto i pacchi sono stati distribuiti a della gente che non ne aveva proprio bisogno. Al figlio di un barbiere della rue Thiers proprietario di un salone che funziona benissimo e che ha la moglie sarta che guadagna bene, è stato dato un pacco, ma al figlio di una povera donna, che ha il marito disoccupato, no.
Queste sono le scuole e l’assistenza fascista!

In quei mesi (fine novembre 1938) era stata costituita una «Commissione Permanente per il rimpatrio degli Italiani all’estero», ribattezzata per brevità, «Commissione Ciano». Agenti del Consolato e dell’ OVRA contattavano le famiglie promettendo un vantaggioso rientro in patria. Analogamente si stava incoraggiando la popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige a “optare” per la Germania.

Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939 altri disordini di marca antiitaliana scoppiarono a Tunisi: all’inizio di dicembre circa un migliaio di persone si diresse verso il consolato italiano e con lanci di calamai con inchiostro rosso e blu disegnarono sulla facciata la bandiera francese al canto della Marsigliese.

Nell’imminenza dell’entrata in guerra, molti nostri connazionali avevano preferito ritornare in Italia, perché le vessazioni francesi erano divenute esasperanti. Andava crescendo l’aspettativa che il Duce intervenisse a dare una fiera lezione all’arroganza franco-inglese.

Molti dei maestri che si trovavano a Tunisi alla data del 10 giugno furono internati in campi di concentramento giù a sud, ai confini col deserto, nei campi di Sbeïtla e Kasserine, fino all’armistizio con la Francia. Dopo il rilascio, la maggior parte di essi rientrò in Italia - per sempre. Cosicché le scuole italiane di Tunisi si trovarono a non avere più insegnanti.

Qualcuno al Ministero doveva ricordarsi di me, e nonostante il precedente – anzi forse proprio per farmi scontare quella sciocca imprudenza – mi ridestinò a Tunisi. Con altri insegnanti mi imbarcai a Palermo sulla nave Adriatico. A Trapani, dovemmo attendere per ben cinque giorni il momento più opportuno per la traversata del Canale di Sicilia: correva voce che un sottomarino inglese stesse aspettandoci per silurarci. In verità, il comandante rimandava di giorno in giorno la partenza per inderogabili impegni galanti con una baronessa torinese, vedova e non più giovanissima, che prestava servizio come crocerossina. D’altra parte gli Inglesi, sempre ben informati e lungimiranti, non ci avrebbero fatto alcunché: la nostra presenza a Tunisi, unita all’enorme dispendio della guerra in corso, avrebbe contribuito a erodere le nostre risorse, cosicché il tornaconto sarebbe stato alla fine maggiore che non affondandoci subito.

Dopo l’entrata dei Tedeschi a Parigi (14 giugno 1940) e l’armistizio fra Italia e Francia (24 giugno, a Valle Incisa), si erano accese speranze per un radicale mutamento della situazione nel protettorato tunisino: il partito clandestino del Neo-Destour riteneva che la Francia , avendo subìto una delle disfatte più vergognose della sua storia, non fosse più in grado di giustificare la propria presenza in Tunisia. Ma i Francesi pretendevano di avere una supremazia sul paese, almeno nei confronti degli Italiani.

Gli Italiani ritenevano imminente un passaggio di amministrazione dalla Francia all’Italia - attesa frustrata nel frattempo dai colloqui di Monaco fra Mussolini e Hitler (18 giugno): la Tunisia non fu assegnata all’Italia né come colonia, né come territorio amministrato per tutta la durata della guerra. Al contrario si avvertiva una preferenza germanica per i Francesi. Ma questi delusero completamente le aspettative dei Tedeschi e se nella madrepatria erano divisi fra “liberi” e “collaborazionisti”, nella colonia erano per la maggior parte antitedeschi.

In tale situazione, non fu possibile riaprire i consolati nel pieno delle loro funzioni rappresentative (la cura dei vasti e complessi interessi italiani fu affidata al consolato svizzero): in autunno i consiglieri e i funzionari ritornarono alle proprie sedi, ma in qualità di membri della Commissione Italiana di Armistizio con la Francia ( la CIAF , che aveva sede a Torino). Nonostante la “vittoria sulla Francia”, gli Italiani si vedevano perciò più limitati nella libertà di azione e meno tutelati di quanto non fossero prima dell’entrata in guerra. I nostri congedi estivi, ad esempio, dovevano essere richiesti, tramite il Consolato, alla Commissione di Armistizio che aveva competenza anche sugli “affari civili”.

Il 28 giugno, nei cieli di Tobruk, l’aereo di Italo Balbo venne abbattuto, per errore, dalla nostra contraerea. Per chi lo poteva intendere, questo era un chiaro segno premonitore, con lui scompariva il simbolo della presenza italiana in Africa: l’esercito Inglese costringerà le truppe dell’Asse alla ritirata per oltre duemila chilometri proprio lungo la Balbia.

Al momento della dichiarazione di guerra, si dovevano controllare circa 6.000 chilometri di fronte in territorio coloniale (Egitto, Sudan, Kenya, Somaliland). Nell’agosto del 1940 le Camicie Nere italiane conquistano la capitale della Somalia Inglese, Berbera (Berbera, la Dunkerque del Mar Rosso, una colonia conquistata in 17 giorni, titolava «Il Popolo d’Italia»). L’impresa, nonostante i trionfalismi di regime (l’impresa fu propagandata dai cinegiornali Luce anche con plateali falsificazioni), fu tanto modesta quanto effimera.

Pochi mesi dopo l’Italia perderà tutta l’Africa Orientale. Durante la battaglia finale, l’Amba Alagi fu testimone per la seconda volta (la prima era avvenuta nel dicembre 1895) della disperata resistenza dei soldati italiani: in ritirata da Addis Abeba, al comando del viceré di Etiopia, il «principe sahariano», il «ferreo Duca»Amedeo di Savoia Aosta, essi resistettero dal 1° al 15 aprile 1941 agli attacchi britannici, meritandosi così l’onore delle armi al momento della resa. Il 28 novembre del 1941 cadrà anche Góndar, ultimo presidio italiano in Etiopia. Sono particolarmente legato alla memoria del Viceré d’Etiopia, in particolare ricordo con quale solennità fu celebrato l’anniversario della sua morte (3 marzo) nella scuola che avevo riaperto ad Hamman Lif durante le ultime settimane prima della disfatta; per illustrarne la figura e l’esempio avevo tenuto delle lezioni alle singole classi.

Ma queste son cose che ormai non vengono più scritte nei libri di storia per le scuole...


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