Oberto Ameraldi: Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 349-358. |
9.01. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte prima)
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Sogno d’un pomeriggio di mezza estate
Sotto l’ultimo larice vicino alla vetta, accarezzato in volto da un orezzo silvestre che porta sapori di resina, frullando alle nari il fiore del santo che a quell’alpe dà il nome, m’appisolo un poco nell’ora panica d’un silente meriggio d’estate: in caterva continua, in cascata precipite, si avvicendan nel sogno i pensieri e le scene di mesi ormai prossimi, che poi con sorpresa dal vero vivrò.
Dov’è la differenza? Usiamo le stesse parole. Se in superficie così simili appaiono, in quale terra affondano le loro radici, donde traggono linfa tanto diversa? Per questo cuore di senso, nell’una parte e nell’altra si è disposti al sacrificio supremo.
Ed io? Son forse un pusillanime, se in quest’ora presente non rischio apertamente la vita? Ma già l’avevo offerta: chiamato dai bandi più volte mi avevan “scartato” e bollato di cerna. E dunque, viva la vita! mi dico. Mia e di quanti sono con me, del prossimo mio. Dei bimbi, delle loro famiglie e dei maestri del circolo nuovo.
“Credere, ubbidire, combattere”: l’abbiamo fatto; ma perché abbiamo perduto? “O si vince o non si torna”: non ci dovevano esser testimoni della disfatta. Trafiggere l’ideologia, pensare davvero al futuro, al dopo: vinti o vincitori saremo tutti Italiani ad un modo.
E dunque vinca chi vuole. Il Popolo – lo voglio scrivere con lettera grande – deve vivere, il Popolo vincerà.
È uno “sguardo oltre la morte”, così arduo in giorni come questi, quando troppo spesso ti può capitare di vedere corpi innocenti per la strada riversi. È una ricompensa agli eroi, che per il nuovo hanno dato la vita.
Che importanza può avere la “parte” in cui militavano? Se si ha di mira l’interesse del popolo tutto, non si può esser di parte. La scuola non può essere di parte. Era di parte quando non c’era altro modo, ora che si prospettano vie altre e diverse non può parteggiare. La scuola è milizia di Patria, posto di combattimento civile.
Comunque si profili al palazzo il nuovo dopo la guerra, sarà sempre per merito di chi l’Italia ha voluta così, dei suoi figli ed eroi: da Tito Speri a Giacomo Cappellini, che in risorgimenti diversi han condiviso la medesima cella in Castello. La vedo, questa straordinaria continuità della storia. E strazia il vedere che è di necessità punteggiata dalle croci dei suoi validi artefici.
Non sarò mai un eroe, nessun ideale mi vale la vita! Mi dispiace, nemmeno la libertà. “Libertà o morte” era il motto sulla prima bandiera tricolore d’un battaglione di fanti in Iseo, nel millesettecentonovantotto. “Libertà o morte” hanno sempre e dovunque scritto col proprio sangue chi fu insieme ribelle e patriota, in Valle Camonica come in Candia lontana, turco o tedesco che fosse il nemico.
Ma quando vedo un bimbo che ha fame, che non ha ai piedi le scarpe, che si lega con lo spago i corti calzoni e i capelli son pieni di lendine da non poterli con la mano accarezzare, un grido mi raschia la gola nella smania d’uscire: no! no! no! mille volte no, che non è vita, che non è libertà. Questo il mio fronte, questa la mia battaglia, mein Kampf, al diavolo se suona male e tedesco, mi piace come concentra l’idea. Allora anch’io sono in guerra contro la troppo palese ingiustizia.
I bombardamenti non lasciano tempo al pensiero: mangiare bisogna ogni giorno. Non sarà il ciarpame burocratico a costringermi inoperoso e vigliacco dentro un ufficio. Questo, quell’altro e quell’altro per terzo. Avanti, spingendo con tutta la forza sui pedali nella nebbia e nel freddo fra gli Orzi e Verola. Tocca a me. È mia responsabilità. Una soluzione si troverà. A mezzogiorno 200 balilla avran da mangiare.
Come nella nebbia così fitta al fioco bagliore del primo mattino, così diaccia e pungente agli zigomi che debbon rossi contrarsi, e i cigli aggrondarsi a guardare, altrettanto penetrante e mirato sia lo sguardo in quel vago ignoto biancore a creare un passaggio fra il nulla, un futuro in aggetto fidente: un piatto caldo o un quaderno da trovare entro stamane.
C’è sangue, paura e macerie, povertà quotidiana di poca polenta e poi nulla. E senza speranza. E senza pietà: l’è morta oramai. Noi ora si poggia sul fatto che ancora siam vivi. Se ben non sappiamo che faccian gli eserciti, ancora siam vivi; se ben che siamo civili, pure un posto l’abbiamo nella nostra trincea, combattiamo con le armi che abbiamo, anche quando dal vasto del cielo trafigge gli orecchi un’ossessiva sirena e spente son tutte le stufe: nemmeno una schiampa è rimasta di tutta la legna, requisita ogni noce di coke.
Un giorno via l’altro. Fidando di sé, dell’impegno generoso e totale che non sappiamo non dare.
Una vedova in nero, con al collo un lattante e un cavagno sobbraccio, m’implora il più grandicello pei lavori nei campi, pel granturco da cogliere, per le vacche ed il pabulo, per guardare i suoi fratellini, ché lei deve al resto badare: alla stalla, alla nonna, al bucato e infine, chissà, anche al povero desco. Perché più non ha in casa un marito: ucciso...
Davvero – mi dico – non importa da chi.
Guerra: greve, fosca, cattiva. Ma lo sguardo, quanto più è terso e sereno, tanto più un’idea si condensa in parola netta e precisa, e la cogli ch’è lì pronta da prendere; anche una sola dolce parola, di sollecita cura, d’amorosa premura. È forte e diventa efficace quando la batti, tasto per tasto, sull’Olivetti in ufficio. E quanto bene poi fa. Dalla scuola si vedon sullo schermo del fondo le famiglie e il loro patire ogni giorno. Non si può solo stare a guardare. Questo è il Popolo, il nostro Popolo, la mia povera gente.
È un popolo che soffre, un popolo disorientato che aspetta, che combatte per una liberazione: dai bisogni, dalla fame, da questa tristissima guerra.
Che posso fare? Ho una carica e dirigo una scuola, un distintivo littorio all’occhiello e l’energia del fiore degli anni, do tutto il mio tempo, ma vedo che alla fine ho solo due mani.
Ma quando entra la marmitta fumante col minestrone di pasta e fagioli con l’aggiunta d’un pezzo di cotica che natante ogni tanto riaffiora, allora tutto ritorna: il sorriso e il pensiero al domani, il sereno nel cuore e la fiducia nel bene. «Buon appetito, balilla». E mi commuovo dentro di me al vedere i cucchiai portati alle bocche, gli occhi che guardan fidenti e quando odo mille piccole grida e il tintinnio dei piatti già vuoti. Anche oggi è andata, hanno mangiato. E domani ancora un miracolo di nuovo si avrà.
Io mi aiuto, ma di certo – e lo vedo – anche il Cielo mi aiuta.
***
Durante i sette anni della mia permanenza all’estero il senso di appartenenza nazionale si era andato identificando astrattamente col fascismo.
Esattamente come era avvenuto venti anni prima una “nuova Italia” stava emergendo. Nuovi significati assumevano parole come libertà/democrazia, Italia/Patria, guerra/pace. Il loro significato si era rinnovato assumendo sfaccettature inedite, proiettate interamente verso il futuro. Stupivo che non avessero bisogno di un passato, di una tradizione per attingere continuità e autorevolezza.
Poco dopo il mio rientro, verso la fine del mese di maggio del 1943, fu affisso un bando di chiamata alle armi. La mia posizione era chiara: ero in congedo illimitato (dal 1930), in attesa di altra assegnazione all’estero, con passaporto a scadenza illimitata. Godevo dell’esonero a motivo di regio servizio.
Tuttavia volli avere una risposta dal Distretto che mi tranquillizzasse completamente, perché non sapevo con precisione quanto potesse contare, ai fini della chiamata, il fatto che ero rientrato in patria per causa di fatti bellici. Infatti dal competente Ufficio Militare del Ministero per gli Affari Esteri non avevo ricevuto nulla che confermasse regolare la mia presenza in territorio metropolitano.
Scrissi poi una seconda lettera in cui aggiornavo l’Ufficio Matricola sui titoli acquisiti da quando ero stato posto in congedo e chiedevo le modalità per poter frequentare un corso ufficiali, pur sapendo di appartenere a una classe “anziana”.
I Carabinieri trasmisero il giorno dopo le mie richieste al Distretto. Entro una settimana giunsero le risposte:
«Al militare in oggetto, avendo già denunziato i titoli di studio, non incombono ulteriori obblighi.
Egli non deve rispondere alla chiamata alle armi, di cui al manifesto in data 22 aprile 1943, perché non risulta trovarsi nelle condizioni espressamente considerate dallo stesso manifesto.
Egli, per di più, non può frequentare i corsi di Allievo Ufficiale, pur avendo i titoli, poiché non trovasi nelle condizioni in vigore per la ammissione ai detti corsi.»
Avuta questa assicurazione, potevo andare a Cattolica per il consueto turno alla colonia marina. Quell’anno c’erano grandi novità, le “navi” ospitavano molti ragazzi profughi dal Nord Africa (Libia, Tunisia, Algeria e Marocco).
Il dieci giugno, di ritorno da una delle mie frequenti passeggiate tra i campi, giunto in prossimità del cimitero, incontrai lo zio Siro: «Sono stato a trovare il mio maestro nel cinquantesimo della morte». Si riferiva a don Paulì, don Paolo Nodari, morto appunto il 10 giugno 1893. Quanto rispetto; quanto deve aver dato ai suoi scolari!
Verso la metà di giugno si sparse la notizia che le nostre campane sarebbero state requisite per motivi di guerra, dopo che già erano sparite dalle cucine buona parte delle belle e corrusche stoviglie di rame. Il solo pensiero di raccogliere e mettere su un carro quegli oggetti di rame metteva un brivido poco rassicurante: immediato era infatti il richiamo al modo di dire dialettale cargà ’l ràm per indicare l’ultimo “trasloco” che attende tutti i viventi.
In città e un po’ dovunque si temeva per statue di notevole valore artistico. Fu così che il 17 giugno 1943 due campane, il campanù e la hegónda, furono calate dal campanile e portate via. Si dette sì l’assicurazione che sarebbero state fuse solo in caso di assoluta necessità, ma per la maggior parte degli Esinesi esse erano ormai perdute. Dopo un’estate di proteste e trattative, verso la fine di ottobre si riuscì a “riscattare” le due campane per la somma di lire 5.300.
Il paese, senza il rintocco delle ore e del mezzogiorno, sembrava avvolto in un silenzio spettrale; subito il pensiero correva alla guerra e l’inquietudine aumentava. E se fosse stato ancora vivo al hòp de Húer (lo zoppo di Sovere, Giuseppe Guizzetti, 1872-1940) non so come sarebbe riuscito ad accordare il suo contrabbasso (la hò ’àca, la sua mucca) col do del campanone.
Stavano tornando alla spicciolata i reduci dalla Russia. Raccontavano cose inaudite. Erano molto arrabbiati col Duce che aveva raccontato un mondo di balle e con il regime che li aveva mandati in capo al mondo a morire per nulla, combattere male armati e peggio equipaggiati contro i Russi. Fra lo stupore di tutti dicevano che i Russi erano buoni cristiani, brava gente come noi, altro che bolscevichi! E semmai i Tedeschi erano delle bestie. Ora avevano un conto personale da regolare, anche a nome dei commilitoni che erano morti perché essi potessero uscire dalla sacca di Nikolajevka. Molti dei loro compagni erano rimasti là, sotto la neve.
Le madri in paese andavano dai reduci a chieder notizie dei figli: perché non erano ancora tornati?
Ma dopo i primi giorni i reduci non parlavano più. Piangevano sempre più di frequente, sia perché ogni volta si rinnovava il dolore, sia perchè vedevano le nostre facce sempre più incredule.
Era la prima volta che sentivo parlar male del fascismo così apertamente. Anche solo per prudenza era meglio che non parlassero tanto: se eran riusciti ad evitare la prigionia russa, non avrebbero potuto scampare a quella fascista.
Nei loro racconti mi aveva però impressionato la tremenda forza di volontà grazie alla quale eran potuti ritornare. Non si sarebbe esaurita tanto facilmente.
M’è capitato di incontrare in paese un reduce dalla Russia e di discorrer con lui. Non so immaginarmi quanta neve deve aver visto, calpestato; quanto freddo deve aver patito, eppure non aveva resistito al richiamo di una escursione in alta montagna. Descrivendo le sferzate gelide del vento delle vette, sorridente diceva: «L’è bèl hintíh al vihinèl de la ’edrèta che te píca ho ’l mohtàh». Amando io stesso le gite in montagna, potevo capirlo. Non starò a scomodare gli antropologi, che sul tema avrebbero senz’altro cose ben più sensate delle mie. Nella vita di ogni giorno a volte compiamo delle cose senza una evidente utilità pratica, senza una finalità materiale immediata, ad esempio le infinite monellerie che combinano i nostri nabissi: una ne fanno e cento ne inventano, come si fa a contenerli? Io penso che tali gesti possono essere spiegati se li consideriamo entro una visione spirituale della nostra vita, anche quotidiana. Che cosa di bello, di curioso, di importante ci attrae lassù in alto, qual è il richiamo che ci giunge dall’alto di una vetta per salirci, incuranti della fatica?
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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010Copyright © 2009 - Vittorio Volpi
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