Oberto Ameraldi: Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 358-394. |
9.02. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte seconda)
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Questa inconscia attrazione verso le forze primordiali del creato rende capaci di gesti di maggior contenuto spirituale. Azioni che sembravano estreme diventano usuali, l’eroismo diventa fatto d’abitudine.
Sono forze vive e vitali, guai a fermarle, a porre degli ostacoli: i confini stessi sembrano non aver altro senso se non il gusto di violarli. Se non hanno libero campo d’espressione queste forze sconfinano nel ribellismo, che, in parte, può essere spiegato come bisogno connaturato di avventura.
Anche le nostre Colonie sono state una risposta a questa necessità: una valvola di sicurezza, come si diceva allora, per assorbire le energie prorompenti della razza.
Mussolini aveva assicurato che «un eventuale sbarco anglo-americano in Italia sarebbe stato “congelato” sulla linea del bagnasciuga». Da una parte ero fiducioso nelle parole del Duce, ma dall’altra avevo visto com’era stato ridotto il nostro esercito. La perdita dell’Africa mi bruciava: avrei dato la vita per combattere in Etiopia. In Tunisia avevo dato il meglio di me. Ed ora ce ne stavamo andando con la coda fra le gambe.
Le parole del Duce furono clamorosamente smentite dai fatti nel giro di poche settimane. Il 10 luglio gli Alleati sbarcavano in Sicilia. Il 19-20 luglio aerei alleati giunsero a bombardare Roma. Mussolini, di ritorno da Feltre dove si era incontrato con Hitler, vide in vari rioni i bagliori degli incendi. Gli aeroporti Littorio e Ciampino erano danneggiati. L’apparecchio dovette atterrare a Centocelle.
Il mito di Roma imperiale, città eterna, stava crollando.
Il Gran Consiglio si riunì nel pomeriggio di sabato 24 luglio alle ore 17: dopo una discussione di 10 ore, alle tre del mattino con 19 voti favorevoli, 7 contrari e un astenuto fu approvato l’“ordine del giorno Grandi” con l’esautoramento di Mussolini.
Si trattò molto probabilmente di una camarilla di palazzo con relativo pronunciamiento ad opera della casta militare, insofferente dei ripetuti insuccessi bellici e della violazione del territorio italiano da parte di truppe straniere. Gli ultimi eserciti sbarcati in Sicilia erano strapotenti e boriosi, bombardavano, distruggevano, avanzavano inarrestabilmente senza risparmio di uomini e mezzi.
Alle 17 del 25 luglio Mussolini si recò dal re Vittorio Emanuele a rassegnare le dimissioni da capo del governo; dopo l’incontro fu arrestato da un capitano dei Carabinieri e trasferito nell’Isola di Ponza, l’isola-carcere di numerosi antifascisti.
Il regime era definitivamente collassato in se stesso, per moto proprio, incantato dal proprio stesso incantamento, franando come la statua dai piedi d’argilla sognata da Nabucodonosor.
Caddero i miti, i valori, gli emblemi, gli idoli, gli ideali...
... e le fette di salame sugli occhi.
Il re si rivolse agli Italiani con un proclama sibillino: «ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento», cioè il solito «credere, obbedire, combattere». «L’Italia […] ritroverà nel rispetto delle istituzioni, che ne hanno sempre comportato l’ascesa, la via della riscossa”, dunque da vent’anni eravamo in “discesa”? Venivano espressamente richiamati «il valore delle sue Forze Armate» e la «decisa volontà di tutti i cittadini»: l’Esercito Regio stava incassando batoste solenni su tutti i fronti, riuscendo a salvare forse solo l’onore, grazie all’abnegazione e al coraggio dei militari combattenti; quanto poi alla «volontà di tutti i cittadini» non mi spiego come egli avesse potuto conoscerla e pretendere di interpretarla.
L’orologio veniva spostato indietro più o meno attorno al 4 novembre 1918. Con questo proclama anche il re-imperatore sconfessava Mussolini, quasi che il fascismo fosse stato un esperimento mal riuscito, una parentesi da chiudere definitivamente.
La parola “riscossa” era poi quanto mai buffa, per non dire tragicomica in un regio proclama, richiamava alla mente il motto scanzonato dei tre moschettieri. A ben vedere, riscossa significa riconquista dei diritti civili e politici. Dov’era stato il re in tutti questi anni? Egli stesso aveva affidato l’incarico di governo a Mussolini dopo la marcia su Roma. La monarchia ammettendo inconsapevolmente i propri errori, tentando anzi di salvarsi in extremis, si dichiarava da subito fuori gioco.
Ma peggio ancora quella parola, riscossa, richiamava alla memoria l’inno esecrando di Bandiera rossa «Avanti, o popolo, alla riscossa». C’era veramente da ridere per non piangere.
Che fosse finita anche la guerra? A smentire gli illusi il proclama di Badoglio lapidariamente asseriva: «La guerra continua». Sì, ma ora chi era il nemico? Fonti bene informate davano per molto probabile un armistizio entro breve.
Un bel caos. Da un disordine nasce sempre un nuovo ordine, direbbe la mia Margherita.
Due giorni dopo, il 27 luglio, un decreto del governo Badoglio dichiarava sciolto il Partito nazionale fascista, con l’abnorme e gattopardesco corollario: «Con lo stesso provvedimento sono state dettate norme perché i vari Enti assistenziali, educativi e sportivi già dipendenti dal Partito possano continuare a funzionare». Come dire: dopo il bagnetto nel mastello, attenzione a non buttare anche il pupo con l’acqua sporca!
Questo fu uno dei «primi colpi di piccone». Seguirà il 9 agosto il Regio Decreto Legge n. 720 contro il rapido arricchimento di quanti ebbero posti di responsabilità e di comando nel passato regime, premessa per una più generale “epurazione”. Il 27 verrà sciolta anche la Milizia.
Durante lo stesso mese di agosto si venne a sapere che il feldmaresciallo Rommel, sparito misteriosamente dal fronte tunisino poco prima della disfatta, forse per non rischiare il disonore di una sconfitta o per addossarne la responsabilità ai soli Italiani, era ricomparso a Desenzano, al comando del Gruppo Armate B.
Prima della fine del mese Ettore Muti usciva invece di scena rimanendo ucciso in uno scontro a fuoco con i carabinieri in circostanze mai completamente chiarite.
E siamo così all’8 settembre: data fatidica dell’armistizio, spartiacque nella storia d’Italia.
Ma io non capii proprio cosa stesse succedendo. Era pur vero che non amavamo li Tedeschi lurchi, prepotenti e “stranieri”, ma erano stati fino a ieri i nostri alleati, come si poteva voltar loro le spalle con tanta leggerezza? Anzi, era evidente che l’Italia si voleva sganciare dal carro tedesco e salire su quello dei cosiddetti liberators. Considerai l’armistizio un gesto immorale, e l’ex alleato ci avrebbe fatto pagar cara la nostra slealtà. Anche oggi non mi meraviglio che noi Italiani passiamo per non essere completamente affidabili agli occhi dei Tedeschi.
Non riuscivo più a capire chi fosse nel giusto. Trascorsi qualche giorno in questa profonda incertezza.
Passò in quei giorni per Esine un saltimbanco con un orso ammaestrato.Giunse con catena e museruola, ubbidiva docilmente, i bambini lo accarezzavano sulla schiena senza timore. Ridevo di quel povero orso, ma era un riso amaro…
Possibile che il mondo si stesse sbriciolando così in fretta, che mi stesse franando addosso tutto insieme. Non avevo più appigli. A Roma non era rimasto più nessuno. Mi sentivo come uno dei tanti sbandati: l’astro del mio cielo era caduto. Quale fronte avrei potuto scegliere? Per me non c’erano alternative.
Mi domando, infatti, come molti siano riusciti a prender subito una posizione. Probabilmente da tempo avevano tagliato i ponti col fascismo, ritenendolo fumo negli occhi della povera gente, un sistema per spolpare fino all’osso il popolo italiano, una bocca d’inferno che ingoiava giovani vite in guerre sanguinarie perse in partenza, e non attendevano altro che l’occasione per combatterlo.
All’inizio, penso, fu per molti una scelta emotiva, cioè non razionalmente meditata, né profondamente motivata. Con questo non voglio affatto sminuire, come si potrebbe a tutta prima pensare, il valore di tale scelta. Tutt’altro: già Pascal – che pure è stato l’inventore della calcolatrice meccanica – aveva compreso che le coeur a des raisons, que la raison ne connaît pas. Solo che le meditazioni, gli aggiustamenti, le motivazioni giungeranno solo ex-post, a posteriori, a cose fatte.
Mi mancò un anello, determinante, per cambiar di segno alla mia fede. Ascoltando gli amici partigiani parlare lo schietto dialetto dei padri, percorrendo le viuzze di Bienno, di Cerveno e le mulattiere che portavano agli alpeggi ben noti, sentivo che c’erano radici profonde, diretta continuità con le giovani forze che stavano difendendo la propria gente e i luoghi natii come da una pestilenza venuta da fuori.
Mi sentivo guardato con sospetto a causa della mia militanza politica e per essere stato forse troppi anni fuori dall’Italia: anche se avessi voluto saltare la barricata, sarei stato sempre un sorvegliato speciale; i partigiani non credevano facilmente alle conversioni.
Non a torto: come topi che scappano da una nave che affonda, erano comparsi numerosi antifascisti dell’ultim’ora che trovavano rifugio nel nuovo corso e si facevan belli delle vittorie di altri.
Per me tagliare con il passato era troppo doloroso, significava rinnegare me stesso, io che avevo chiamato “rinnegati” gli antifascisti del “Midi-Minuit”
Nella mia idealizzazione il fascismo era stato un dogma, non poteva essere che buono. Non conoscevo il suo lato nascosto, né sospettavo esistesse.
Il fascismo, quello vero, mussoliniano, rivoluzionario, quell’idea grande, forte, concreta in cui avevo creduto non esisteva più. Come ogni cosa umana aveva fatto il suo corso. Anche “la mia fede” si ridimensionava. Dalle olimpiche rarefazioni del misticismo cui pure ci aveva innalzati, la guerra ci mostrava ora lo strazio infinito del dolore, il trionfo macabro della morte, la lugubre desolazione dei campi di battaglia: corpi abbandonati nel fango, cavalli scossi, immobili e neri sotto la pioggia; la guerra ci stava entrando nel cuore come una tarantola nera, le membra pervase d’una febbriciola che mai non passava, il pensiero incupito d’un’uggia «etterna, maladetta, fredda e greve» come la piova del terzo girone.
Tirando le somme e considerando quel che mi restava, vidi che mi rimaneva la mia preparazione, rimanevo un maestro che volentieri avrebbe dedicato vita e lavoro alla scuola. E questa volta, quel che mi ripromettevo aveva ben altri fondamenti: dentro e fuori di me. Di me non dubitavo: il doloroso cauterio delle cose viste in Spagna e a Tunisi mi aveva segnato profondamente, mi aveva insegnato il valore di redenzione individuale del lavoro, aveva messo alla prova il mio senso del dovere e di responsabilità; la parola sacrificio recuperava il suo significato etimologico di “rendere sacro”.
Fuori di me, nell’immediato, vedevo le nuove generazioni di bimbi che si avvicendavano sui banchi di scuola: con la costanza del lavoro quotidiano, con la stessa premura che un contadino ha per le pianticelle che coltiva, sarebbero cresciuti buoni e bravi. Non credere in essi mi pareva quasi sacrilego, come dubitare che un fiore di primavera non divenga poi frutto a suo tempo.
L’“ammutinamento” del 25 luglio – concludevo tra me – era dunque un riflesso, in guanti bianchi, di quanto già era diffuso nella società. Come nella fiaba di Andersen, il popolo, nella sua innocente semplicità, aveva già visto che “il re era nudo”. Il popolo, alle prese con la fame quotidiana e la continua carneficina dei suoi figli (a peste, fame et bello – libera nos Domine si salmodiava nelle Rogazioni), non credeva più, aveva visto che l’Italia idealizzata dal fascismo era un mito falso e bugiardo; aveva visto giorno dopo giorno che il Capo stava conducendo tutti alla rovina, aveva tradito chi a lui si era affidato anima e corpo. Perciò l’aveva disconosciuto, perciò era legittima la ribellione.
A guerra finita, con mia molta sorpresa, scoprii che noi fascisti e i “ribelli” usavamo le stesse parole, che gli slogan erano intercambiabili. Entrambi eravamo convinti che alcune grandi cose di ambito spirituale fossero morte: il senso del dovere, l’amor di patria, la serietà nei proponimenti morali, il carattere stesso di “Italiani”. Superficialmente, dunque non era evidente che cosa avessero i due fronti di tanto diverso da farsi la guerra l’un l’altro. Ci si ammazzava tra fratelli per gli stessi ideali (libertà, rinascita dell’Italia, Mazzini, vittoria), obbedendo ai ben noti “imperativi categorici” adottati pari pari dalle due fazioni: «credere, obbedire, combattere».
Per me era impossibile cambiare opinione nel breve tempo d’un’estate, durante “i quarantacinque giorni”.
Era una scelta di campo estrema, portava a mettere in gioco la propria vita. Per la chiarezza e per nutrire i propri convincimenti, le posizioni dovevano essere nette, senza adito a dubbi. Uno spartiacque epocale. Così almeno dettava lo schema, nell’un campo e nell’altro.
Qual era la causa giusta?
Ma quando uno paga con la propria vita, la causa non può non essere giusta, almeno per lui. Per questi eroi, martiri, spiriti liberi l’ideologia e perfino l’afflato ideale è un letto di Procuste. È una questione di cuore. Per questo cuore vanno a bruciare la propria carne, affinché si trasformi in ispirito. Solo a prezzo della vita si attinge la trascendenza.
Mi stavo avvicinando agli estremi confini dell’ambito mio solito, là dove il terreno diventava cedevole e il passo incerto. Presentivo vagamente come mi sarei sentito io stesso se avessi continuato: non avrei sopportato un solo istante di vedermi così incerto e cacadubbi; il solo aborrevole pensiero mi dava una sferzata e mi faceva volgere l’attenzione a cercare altrove una nuova via dove incanalare la mia intransigente coscienza, la mia fidata energia, quella sorta di ascetico e incosciente ottimismo che all’esterno il mio sorriso sempre mostrava.
Aspettavo di giorno in giorno notizie sulla mia prossima destinazione all’estero, ciò mi avrebbe forse restituito una qualche certezza. Ma da Roma, ormai svuotata del potere, sarebbe mai arrivato qualcosa?
Rimanevo in vigile attesa dello sviluppo degli eventi, anzi, dei fatti.
Era un fatto, ad esempio, che seicento mila soldati fossero avviati verso l’incognita di una lunga e tribolata prigionia, mentre alcuni “fortunati” si davano per disertori e riuscivano a scappare a casa. Nelle adunate sulle piazze d’armi i comandanti avevano tuonato, sovrastando il mormorio diffuso nei ranghi: «Vi ho sentito dire che è finita. Non è vero. La guerra continua. Rientrate al reparto, preparate armi e bagagli, state pronti in attesa di ordini.».
Di fronte all’augusto esempio del “re fellone e voltagabbana” molti si sentirono sciolti dal giuramento prestato. La sua decisione aveva spaccato l’Italia, trasformando l’alleato germanico in straniero occupante. Piuttosto che esser catturati dai tedeschi molti preferirono tentare la fuga verso casa.
Fu l’odissea di un popolo
«10 settembre 1943. Incomincia il triste passaggio dei soldati italiani che hanno abbandonato bandiera, caserma, accampamento... Passano vestiti in tutte le fogge, persino da donne, da prete, da frate. Molti mostrano i segni di un lunghissimo viaggio. […] Oltre i soldati italiani sbandati e fuggiaschi, vi sono torme di prigionieri alleati che dai monti e dalla valle cominciano ad affluire. Sono fuggiaschi dai campi di concentramento e cercano la via della Svizzera. Sono di ogni razza, di ogni grado militare e sociale, di ogni condizione, di ogni religione e di ogni lingua. […] Vi sono anche i perseguitati politici, braccati come lupi dai fascisti più rabbiosi che rialzano il capo minacciando le più sanguinose vendette all’ombra delle baionette tedesche.»
Per quella solidarietà contadina ben nota ad ogni latitudine, gli sbandati, i renitenti, gli ex-prigionieri venivano aiutati e anche “adottati” dalle famiglie; e queste erano certe che i propri figli ricevevano le medesime sollecite cure da altre famiglie, in paesi forestieri, lontani da non potersi immaginare quanto.
Dal piccolo campo allestito nei pressi del ponte dell’Oglio i prigionieri (inglesi, americani, australiani, canadesi...) fuggirono in massa disperdendosi nei dintorni o prendendo la via della vicina Svizzera.
La Valle Camonica diventò passaggio obbligato per quanti provenivano dalla Bassa. Si bussò alla porta di ogni canonica, di ogni casa isolata, ogni fienile divenne un nascondiglio per passare la notte, ogni contadino un buon samaritano, pronto a soccorrere chiunque con un poco di latte, una scodella di minestra. A Bienno, la casa di Luigi Ercoli si trasformò in luogo di tappa per quanti risalivano la Valle o giungevano dalla Valtrompia, attraverso il Passo di Crocedomini.
Molti dettero con generosità, coscienti del pericolo e pure incuranti, come don Pietro Salari, parroco di Plemo, che verrà arrestato il 27 settembre e rilasciato qualche giorno dopo.
Un gruppetto di alpini bresciani di stanza a Silandro sotto le armi dall’inizio della guerra, animati dal sergente Quaresmini, decisero di saltare il muro della caserma. Passato l’Adige, in piena in quei giorni, risalirono la Val Martello. Con l’aiuto di una guida attraversarono il ghiacciaio che porta in Val di Rabbi. Proseguirono poi verso Pejo, per il Passo Cèrcena. Sapendo che la strada di Vermiglio era ben presidiata dalle truppe tedesche e molte ne transitavano dirette in Valcamonica, preferirono la Valle del Monte. Giunti al Passo dell’Albiolo intravidero in basso le Case di Viso e Pezzo. Ormai erano a casa. Fra quei temerari era anche un giovane di Esine, Giommaría del Dùrt .
Dal 13 al 23 settembre, a Cefalonia, migliaia di giovani vite venivano falciate per aver tenuto fede al proprio onore di soldati e di Italiani. Su quel Carso assolato, fra il verde degli ulivi e lo smeraldo del mare di Ulisse, non si poteva tradire Leonida. E non riconoscere al tempo stesso una superiore giustizia che ci infliggeva l’espiazione di una simile efferata mattanza.
A ben guardare dunque i primi eroi della Resistenza sono stati questi soldati delle isole greche (Cefalonia, Leros, Rodi, Cos...) perché hanno “resistito” contro la Germania nazista e perché hanno combattuto innanzitutto contro la guerra, fascista o badoglio-savoiarda che fosse.
Ogni militare potrebbe raccontare il proprio 8 settembre. Pagine di diario, ricordi personali narreranno a guerra finita quanto sangue sia stato versato, quante le sofferenze patite, i momenti atroci e senza fine e l’infinita sopportazione della nostra gente.
L’asse Roma-Berlino, che aveva portato i Tedeschi in Italia, era stato definitivamente liquidato. La presenza dei Tedeschi ravvivava il sentimento patriottico e rinnovava l’identità nazionale che portava a escludere ogni rapporto e compromesso coi tedeschi. «Coi Tedeschi mai» era il proposito che si andava radicando negli animi. I Camuni, che da sempre avevano avuto la fama di testardi, men che meno potevano accettare dei sücù , dei “crucchi” in casa propria.
I Tedeschi avevano costituito un comando di Presidio a Breno, a Darfo. Il gen. Masina, comandante della piazza di Brescia fu esautorato (16 settembre) e sostituito dal comandante delle SS. tedesche von Wuthenau. Si cominciò a vedere qualche proclama ufficiale (Bekanntmachung) scritto in italiano e tedesco.
Da guerra di difesa contro lo straniero stava diventando anche guerra contro l’ex-alleato entro le mura di casa, stava trasformandosi in guerra civile, e cioè, come già altre volte era successo, in un pretesto per un repulisti in grande stile. La solita Italia garosa e letichina dei tempi di Dante.
Ricordandomi del precedente spagnolo non potevo che aspettarmi violenze, atrocità, distruzioni. Questa volta in casa nostra.
Molti che avevano combattuto in terra di Russia contro le “orde asiatiche del comunismo”, combattevano ora con comunisti e antifascisti locali. Alcuni dei legionari che avevano combattuto in terra di Spagna contro altri Italiani, si erano riconciliati e combattevano fianco a fianco di Garibaldini ed ex miliziani delle Brigate Internazionali. Come se un morbo estraneo avesse infettato l’Italia e si dovesse fare fronte comune. Si stava attuando il bellicoso mandato Rosselli “oggi in Spagna domani in Italia”, dimenticandosi peraltro del nobile volantino di Guadalajara: «Italiani, fratelli nostri», a volte arditamente corretto in: «Fratelli fascisti».
In un certo senso era una fortunata opportunità per l’Italia: chi aveva sbagliato avrebbe pagato. Ma noi ingenui e pieni di fede, dove avevamo sbagliato?
La parola guerra civile mi portò immediatamente a quando anch’io ero in Spagna, lì avevo dovuto inventarmi un modo d’essere, una maniera nel fare. In quei momenti non ebbi incertezze, agii spontaneamente, così come sentivo di dover agire, per senso del dovere e per coerenza con me stesso. Evitai così di condurre «la più grama delle vite, che è quella delle apparenze». E molti altri, penso, si saranno trovati di fronte allo stesso lacerante dilemma:
Vi sono momenti nella vita di un uomo, nei quali importa solo attenersi, a ogni costo, ad una propria autonoma regola di condotta. Nessun altro può dirci cosa dobbiamo fare per restare noi stessi, e per sentirci a posto, così, col nostro codice.
Fortunatamente l’incertezza non durò a lungo. Il 13 settembre Mussolini fu liberato dai Tedeschi dalla prigionia sul Gran Sasso.
La figura di Mussolini come capo carismatico si era molto incrinata. Nelle pochissime apparizioni pubbliche era spesso malinconico, con le labbra fortemente arcuate dallo scoraggiamento, dallo smacco. La voce non era più tonante, come quella di Agamennone; denotava l’avvilimento di chi sapeva di aver perduto e non si aspettava altro che nuove sconfitte. Si avvertiva quanto patisse l’umiliazione di sentirsi ostaggio impotente del duce tedesco che egli stesso aveva istruito nell’arte del potere. A motivo della guerra, entrambi ormai avevano abbandonato il pudore di tener celato «di che lagrime grondi e di che sangue» il loro scettro.
Venne ricostituito un nuovo partito fascista. Pur fra mille titubanze, restituiva a molti il convincimento di poter continuare almeno nell’impegno patriottico, essendo ormai la tensione ideale e l’immagine stessa del Capo dimesse esuvie dei fasti d’un tempo.
Ero rimasto un entusiasta, animato da molta buona fede, probabilmente ero anche molto ingenuo, in confronto dei loschi opportunisti che si nascondevano dietro la figura del Duce e del fascismo per il proprio tornaconto, soprattutto materiale. Mussolini rimaneva per me quel grand’uomo che aveva fatto molto per la dignità e la libertà dell’Italia.
Guardando col senno del poi a quei momenti, certo a molti potrà parere contraddittorio e assolutamente falso parlare di “libertà”. Allora non si poneva tanto l’accento sulle libertà personali, quanto piuttosto sulla «libertà nazionale», ed io stesso non riuscivo a vedere come avrei potuto essere personalmente libero se non lo fosse stata anche l’Italia.
Fin nelle mie più intime fibre sentivo che una società non era semplicemente un aggregato casuale di individui di per sé isolati, che la libertà di cui potevano godere simili individui era una pretesa libertà, un’illusione. Era la libertà di un naufrago su un’isola deserta, di un pescatore del Bajkal.
Lo Stato era concepito come “totalitario” nel senso che essendo l’Italia una «comunità nazionale» non ci doveva essere nulla fuori o contro lo Stato, ma tutto nello stato e per lo Stato. Tale concezione coincideva perfettamente con quella di Patria e di identità nazionale. Se questo voleva dire accettare volenterosamente e disciplinatamente tutti gli oneri e i doveri anche molto gravosi, ciò mi sembrava una condizione altamente civile e dal profondo significato etico: primo perché ogni legge che viene emanata presuppone le condizioni per essere osservata (e non vedo come uno Stato possa agire secondo giustizia emanando leggi contro i suoi stessi cittadini); secondo perché portava i singoli a sentirsi direttamente corresponsabili del destino dello Stato, condividendo unanimemente coi propri governanti la «coscienza della necessità».
Gentile, ribellandosi all’atomismo sociale e politico che minava il principio stesso di convivenza umana, portando dritto al materialismo illibertario perché privo di valori, aveva scritto:
Coloro che in nome della moralità si appellano alla libertà da riconoscere all’individuo particolare, come sostanza indipendente dalla sociale aggregazione che ne fa in un secondo momento un membro della società, non sanno quel che si dicono e vanno a precipitarsi in quel materialismo che intendono combattere a tutto potere, pro aris et focis.
In contrasto col clima disfattistico diffuso un po’ dovunque, avevo conservato immutato rispetto per l’autorità. Perciò, quando fu affisso il bando che disponeva che tutti gli appartenenti alla ex MVSN erano richiamati ai comandi, non ebbi la minima esitazione: nella mia completa ingenuità, pensavo di poter contribuire a rendere sopportabile il giogo dell’alleato germanico. Il 17 settembre mi presentai a Brescia, in Castello. Fui subito trattenuto in servizio e mobilitato nella 15ª Legione “Leonessa” che svolgeva vari compiti di ordine pubblico; comandante era il seniore Settimio Gelosi. Fui assegnato all’Ufficio Materiali mantenendo il mio vecchio grado di Capo Manipolo.
L’arruolamento comportava l’automatica iscrizione al nuovo partito fascista repubblicano, il PFR con decorrenza 15 settembre.
Dall’interno di una struttura così vicina al potere, nella perdurante confusione, col ripetersi di abusi e malversazioni, prendevo però coscienza che si navigava peggio di prima. Dapprima ne parlai coi colleghi e coi superiori. Il mio comportamento franco e spregiudicato non era ben visto. Fui definito un tiepido. Col tempo diventai un “elemento da sorvegliare” e pian piano mi avviai sulla china della smobilitazione.
Il 22 settembre venne proclamata la Repubblica Sociale Italiana. Fu subito aspramente osteggiata su molti fronti, da parte di socialisti, comunisti, cattolici, monarchici, antifascisti e da quanti durante i quarantacinque giorni avevano respirato un’aria nuova e pensavano di aver seppellito per sempre il fascismo.
L’ambiente cattolico era il più battagliero. In un articolo senz’altro sfuggito alla censura don Peppino Tedeschi esortava apertamente a riscattare le umiliazioni, a risorgere , ad agire da veri patrioti, aiutando cristianamente i bisognosi (leggi: soldati sbandati, prigionieri fuggiti dai campi di concentramento), offrendo “indumenti, ospitalità, pane, conforto, protezione” tutte cose illegali secondo il proclama tedesco di qualche giorno prima. Dietro un linguaggio apparentemente usuale per un uomo di chiesa, si nascondevano doppi sensi per chi aveva orecchi per intendere: da buoni cristiani si aveva il dovere di aiutare il prossimo per non provocare l’ira di Dio, ma con tutta la prudenza possibile, per non recar danno a sé e alla propria famiglia. Il cristiano era dunque stretto fra il rischio di peccare per omissione e la viltà di non affidarsi con speranza e coraggio alla Provvidenza divina, alla “risurrezione”. Era un chiaro invito, e nemmeno troppo velato, all’antifascismo militante.
In quei giorni la parola risurrezione si sprecava. Infervorava gli animi, misurava le forze, metteva le coscienze a dura prova, fomentava gli odi, armava le fazioni.
Il nuovo governo veniva accusato di essere illegale, perché formalmente non aveva ricevuto la nomina dal re. Penso piuttosto che fossero più illegali i ribelli. Per quanto le ragioni ideali possono ampiamente assolverli e ragioni di sicurezza giustificare, si trattava pur sempre di una società segreta. La Giovane Italia, cui spesso si è paragonato il movimento della Resistenza, non aveva nulla di segreto.
Sapevo di cari amici d’infanzia, Tani Bonettini, Ernesto e Franco Cerianie di altri che si erano uniti a bande ribelli sui nostri monti: li conoscevo onesti e fedeli soprattutto a se stessi. Per le stesse ragioni di coerenza, tenevo fede a ciò che ero sempre stato.
Ai primi di ottobre si rivolse a me Bortolo Savoldelli (Palér) per richiedere un suo lavorante, Nodari Giovan Battista di Ulisse, “ritenuto” alle dipendenze del Comando Presidio Germanico di Breno. Lo aiutai a battere a macchina la richiesta, incaricandomi anche di provvedere per i visti del commissario prefettizio di Esine, Matteo Bonella, e dei Carabinieri.
Questo piccolo episodio mi aveva dimostrato che alcune ruote del complesso ingranaggio burocratico potevano girare anche in un modo diverso da quello rigidamente preordinato.
Avere l’occasione di aiutare i propri avversari poteva capitare di sovente in quei momenti. Non parrà vero, ma bisogna ammettere che i fascisti erano meno drastici dei partigiani. Con un po’ di diligenza si potrebbero raccogliere molti episodi.
Il posto che ricoprivo nella MVSN non richiedeva servizi gravosi o armati. In quelle poche settimane da militarizzato mi capitò l’occasione di esser d’aiuto a molti. Sarebbe davvero peccare di immodestia ricordare qui i loro nomi. Li ho elencati in buon ordine in un promemoria, allegando le loro dichiarazioni. In qualche archivio si potranno forse ancora ritrovare, se il savio conservatore, valutandole testimonianza che riguarda la vita degli uomini, ed esempio che potesse ancora valere in futuro, le ha preservate dal macero.
Vorrei, perciò, invitarvi a osservarmi nella pratica, nelle occasioni contingenti, quando nessuna forza, nessuna minaccia mi avrebbe fatto desistere dal chiamare al telefono un certo numero, dal mettermi alla macchina e scrivere un biglietto d’avvertimento, inforcare la bicicletta dopo il coprifuoco e portare una notizia… Come si fa, in coscienza, a tener prigioniere quelle parole che possono significare libertà per qualcuno che ti è amico, che conosci per giusto?
Dopo l’esperienza vissuta, avevo imparato a riconoscere nel comportamento sincero, generoso degli altri la fede, la purezza degli ideali, la disponibilità cristianissima al sacrificio. Come nel caso di Marco Agosti. Correva voce infatti che fosse fraterno amico del prof. Coccoli che a Bienno stava organizzando gruppi di combattenti e per questo motivo aveva ricevuto minacce e intimidazioni. Non potei lasciar correre e intervenni in sua difesa, chiarendo la sua posizione.
Quanti voltagabbana! L’8 settembre da solo non li giustifica tutti. A ragione l’amico Tani osservava: «I fascisti non esistono più, sono diventati mosche bianche, tutti gli abitanti del paese sono stati antifascisti fin dalla nascita».
In città la situazione era delle più tese. I ministeri della neonata repubblica erano stati trasferiti in diversi centri del Nord Italia: e a Brescia ebbe sede l’importante Ministero della Giustizia. Ciò determinò un richiamo per molti fascisti e il continuo passaggio di gerarchi e autorità, con conseguenti misure di sicurezza.
In questa Brescia, il 9 di ottobre moriva Angelo Canossi, poeta dal “vernacolo forte”. E con lui scomparivano per sempre quella città e quelle figure così caratteristiche, dalla umanità semplice, generosa e arguta che avevano dato materia d’ispirazione alle sue poesie.
Le lezioni, che dovevano riprendere l’11 ottobre, non erano ancora cominciate. Si dovette aspettare l’8 novembre.
Anche nella scuola l’incertezza e l’anarchia stavano prendendo piede. Se si usava il pugno di ferro si correva il rischio di crearsi dei nemici, e proprio fra gli elementi migliori; se si lasciava correre, la confusione e il malessere non sarebbero che aumentati.
La scuola, senza volerlo e senza averne i mezzi, era chiamata ad assolvere un compito pacificatore e rasserenante nella popolazione. L’aveva ben precisato il nuovo ministro, Biggini, succeduto a Bottai nel rimpasto di governo del 6 febbraio 1943. In un radiomessaggio dal titolo Agli uomini della scuola, riassunse con poche dense parole il compito della scuola, in un momento in cui gli avversari si stavano fronteggiando in un confronto che avrebbe avuto un «esito mortale per l’uno o l’altro degli avversari».
Ciò che più mi piacque, e che mi convinse che si stava cambiando aria, furono queste parole, che sentivo profondamente mie:
La verità è che le epoche rivoluzionarie, come la nostra, sono le epoche più degne di essere vissute, poiché la loro caratteristica, la loro vera superiorità etica sulle altre è la loro assoluta sincerità: gli uomini ci appariscono per quello che veramente sono, per quello che veramente pensano.
Era un’indiretta ammissione che fino a quel momento le cose non erano andate così, nonostante la sbandierata «rivoluzione fascista». Un’onesta autocritica. Mi piaceva, perché non aveva avuto alcuna paura nel dirlo, non si era autocensurato. In nome di quella stessa sincerità che aveva così bene messo in risalto.
Nel discorso alla Camera del 14 aprile definirà i compiti della «scuola del tempo di guerra». Nel successivo discorso al Senato (13 maggio), il ministro confermerà le proprie direttive: la scuola continuerà a funzionare, anche sotto i bombardamenti, nonostante le difficoltà. La scuola seguirà gli alunni là dove saranno sfollati: alle scuole chiuse in città si supplirà con nuove scuole aperte nei centri di campagna. «La scuola dell’ordine elementare è scuola di popolo, e questo carattere cercheremo di conservarle, convinti come siamo che un popolo come il nostro è maestro esso stesso nei suoi mirabili esempi di onestà, di lavoro e di sacrificio” valorizzandone l’aspetto “rurale” in contrapposizione all’“urbanesimo”».
Un pensiero dedicò anche ai direttori didattici:
Si è pure regolarizzata la posizione giuridica ed economica dei direttori didattici, e le difficoltà non lievi sorte per questo inquadramento saranno seguite con particolare attenzione avendo riguardo alla delicata funzione del dirigente didattico e alla sua nobilissima missione.
Concludeva il suo discorso con un’affermazione che può far riflettere ancora oggi:
Si parla spesso di cultura-azione, ma questo concetto in realtà è tutt’uno con il concetto della cultura formativa, della cultura-carattere che prende tutto l’essere e ch’è insieme intelligenza ed energia morale.
Ecco perché la cultura è unità e non enciclopedia, è educazione e non semplice istruzione. Ecco perché la scienza è la stessa vita storica di un popolo.
La vita doveva continuare almeno per le giovani vite, del tutto innocenti e per nulla responsabili dei disastri causati dai grandi. La scuola diveniva una riserva protetta in cui insegnanti, famiglie, bambini si ricaricavano di energia e di slancio per affrontare tutti i pericoli, i disagi, i lutti che la guerra inevitabilmente portava con sé.
A dir il vero c’era anche chi aveva espresso posizioni più risolute e combattive, tradendo così il timore che qualcosa stesse sfuggendo al controllo:
Chi non è con noi cerchi di non accusare pubblicamente sui banchi delle scuole le botte che diamo e sempre più daremo senza alcun riguardo a tutti gli illusi attendisti, ai tiepidi, ai traditori, agli avversari. Chi non è con noi è contro di noi. Ma se è contro di noi abbia il pudore di non servirsi della scuola e di una lezione di filosofia per fare breccia di nuovo lutto nell’animo dei nostri giovani. Posizioni nette, noi che aneliamo per l’Italia di ritornare sotto le nostre bandiere là dove si combatte e si rifà la Patria calpestata, chiediamo e pretendiamo. La scuola e la cultura non debbono nuovamente preparare il terreno a nuove pugnalate. Nella scuola non ci deve essere posto che per i nostri.
Già in altre occasioni la scuola era stata una istituzione forte e vitale nella società. Sentivo in me l’urgenza di agire, di fare, di organizzare. Cominciavo a pensare che nella scuola sarei stato di molto maggior aiuto che non nella Milizia. Era un ardore nuovo, un richiamo irresistibile di sollecitudine, vox in Rama audita est («S’è udito un grido in Rama, un lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli»).
Quindici anni prima, proprio in Castello, alla scuola “Abba” avevo iniziato la mia esperienza di maestro con una terza scatenata, spensierata e tremendamente simpatica. Il ricordo mi riempiva di nostalgia e mi ritornò per più giorni. Il contrasto era stridente, la distanza irraggiungibile. Eppure il pensiero mi dava consolazione, mi restituiva la mia pace. Di giorno in giorno mi confermavo che il lavoro nella scuola sarebbe stato definitivamente la mia strada.
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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010Copyright © 2009 - Vittorio Volpi
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