Oberto Ameraldi: Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 395-415. |
9.03. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte terza)
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Per quanto le analogie possano cogliere parallelismi fra due elementi, sempre qualcosa riesce a sfuggire alla coincidenza perfetta. E così, se è vero che nel fare un passo il piede che avanza è sollevato mentre l’altro poggia più fermo per terra (come è noto a tutti i giovanetti alle prese con Dante), così alcune forze, che si definivano innovatrici e combattenti, per il 4 novembre affissero dei manifestini in cui si richiamavano al passato e lanciavano uno sguardo al futuro:
Il 4 Novembre 1918 i tedeschi furono cacciati dall’Italia. Il 4 Novembre è festa nazionale.
Tutti i fiori nei nostri giardini siano da voi individualmente deposti il 4 Novembre presso il monumento dei Caduti in segno di omaggio e imperituro ricordo, ma anche come affermazione della volontà nazionale di insorgere contro il nemico tedesco di fuori e il nemico fascista di dentro!
Nella Milizia gli eccessi erano all’ordine del giorno, il malesempio veniva dall’alto. E anche le crudeltà, perpetrate a man salva da zotici panduri, che si facevano scudo della divisa che indossavano.
A tal punto che il commissario politico Sorlini il 12 novembre venne esonerato dall’incarico. Si aprì un procedimento a suo carico da parte della Procura militare di Stato. I capi di imputazione erano: a) concorso in perquisizione arbitraria continuata; b) concorso in violazione di domicilio; c) concorso in sequestro di persona; d) malversazione continuata e) abuso d’autorità. Al suo posto fu nominato Fulvio Balisti, ex combattente e mutilato.
Nei giorni successivi vi furono inoltre vari fatti di sangue. Mi convinsi che era giunto per me il momento di cambiare aria. Insieme ad un altro ufficiale onesto chiesi rapporto col colonnello, semplicemente per dirgli che non approvavamo che di notte, clandestinamente, si portassero via le forme di formaggio dal deposito della caserma. Noi capimmo che quell’ambiente non era fatto per noi, continuando a lasciar correre avremmo solo favorito i disonesti, i manfroni, la folta risma dei profittatori e tradito i nostri ideali. Il colonnello non gradì la segnalazione che suonava accusa di correità.
Un furto è bastato a gettare discredito su un’arma in cui avevo tanto creduto, alla quale avevo offerto tutto il mio slancio. Se quel che veniva portato all’ammasso finiva dritto al mercato nero, allora davvero la mistica dei sacri ideali del partito, di Roma, della Patria e dei martiri finiva miseramente sotto il tacco delle scarpe. Ma ho dovuto vederlo da vicino, e mi sono bastate poche settimane. Non avevo creduto a una sola parola di tutte le dicerie che si sentivano in giro.
Ebbene, proprio l’episodio delle forme di formaggio trafugate, mi aprì gli occhi sul fatto che base di tutto erano le condizioni materiali, poi si sarebbe cominciato a parlare di politica, di democrazia e di quant’altro.
In previsione dell’istituzione della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), che avrebbe sostituito a fine mese la Milizia , molti inquadrati nella Milizia chiedevano il passaggio alla nuova arma, allettati dall’ottimo trattamento economico. Mi ritenevano sciocco ad accontentarmi della paga di modesto direttore didattico. Per tutta risposta, tra me ripetevo una rima salace del Canossi:
L’òm pié de sólcc l’è ric,
e siòr l’è chel che ghe n’empórta ’n fíc.
Il seniore fu ben contento di liberarsi di me, firmò e asseverò con un bel colpo di timbro la dichiarazione al Provveditorato che mi restituiva ai ruoli della mia professione:
Il Capo Manipolo AMERALDI OBERTO fu Emilio cl. 1908, richiamato alle armi per esigenze militari di carattere eccezionale in data 15/9/1943, ed incorporato in questo Btg. mobilitato, sotto la data 30/11/1943 viene smobilitato e ricollocato nei quadri.
Era il 27 novembre. Aggiunsi anche questa alle già molte disillusioni accumulate in così breve spazio di tempo.
E mi consolavo tra me ripetendomi: se davvero dovevo rischiare la vita, volevo almeno spenderla per qualcosa che non fosse solo la pagnotta.
Pochi giorni prima, il 21 novembre, lo stesso seniore era salito a Darfo per una visita alla “reggenza” del fascio. Vi andava anche per caldeggiare l’arruolamento dei giovani di leva nel nuovo esercito repubblicano. «Dopo aver ricordato il tradimento del 25 luglio ed il vergognoso armistizio dell’8 settembre ha detto che la sola salvezza della Patria è nella forza delle sue armi e dei suoi soldati.»
Gli oppositori, gli antifascisti avevano distribuito un volantino invitando i giovani a non presentarsi.:
Non andate a versare il vostro sangue per una causa perduta ed ingiusta. Abbandoniamo i traditori al loro destino. Non fidatevi delle promesse fasciste. Per venti anni i fascisti hanno gozzovigliato alle spalle del popolo, hanno discreditato l’Italia di fronte al mondo intero, ci hanno stupidamente gettati in una guerra che non abbiamo voluto
Posso capire che fra nemici, anche se fratelli, nessuno riconosca quel poco di bene che vi può essere nell’altro. E, come si dice, ognuno dalla propria trincea combatte con le armi che ha. Ma certe affermazioni, certe generalizzazioni erano false e suscitavano in me solo rabbia. Invece di pacificare gli animi, li aizzavano ancora di più. In quest’orgia di maldicenza, Mussolini veniva chiamato «l’uomo di tutti i tradimenti». A onor del vero, non era stato solo questo.
Restituito ai ruoli dell’Educazione Nazionale fui assegnato alla Direzione Didattica di Orzinuovi. Il posto di direttore didattico era vacante dal giugno 1939. Suppliva il direttore di Verolanuova, Tomaso Spedini. Facente funzioni e in pratica factotum della direzione era la signorina, quarantenne, Jole Assandri. Non era sposata e viveva con la madre ottuagenaria.
Subentrando il 1° dicembre come direttore, ella avrebbe dovuto ritornare a insegnare. Ma chiesi e ottenni che potesse continuare a svolgere il lavoro di contabilità e segreteria della direzione. Si vergognava verso i colleghi della nuova posizione di subordine. Fu per me una collaboratrice attenta, capace e di sicuro affidamento. Abbiamo avuto a volte degli screzi, come normalmente suole accadere quando si lavora con altri.
La situazione ad Orzinuovi era molto complessa, all’inizio faticai ad ambientarmi. Innanzitutto dovetti familiarizzarmi con le procedure “metropolitane”, che erano un poco diverse e più macchinose rispetto all’estero.
Se l’uso del “Lei” era tollerato nelle colonie, in Italia il “Voi” era ormai abituale sia nella corrispondenza che nella lingua parlata. Ciò conferiva un carattere più ufficiale a ciò che si comunicava, ma nello stesso tempo al cortese rispetto si era sostituita una deferenza eccessiva verso l’autorità, che spesso si trasformava in adulazione, non disgiunta da un certo timore e sospetto.
Gli insegnanti e le classi del nuovo circolo erano molti di più che non a Tunisi o a Hamman Lif, distribuiti in 7 comuni e le loro frazioni:
Borgo S. Giacomo (con le frazioni di Acqualunga e Farfengo)
Orzinuovi (con Barco, Coniolo, Ovanengo, Pudiano)
Orzivecchi
Pedergnaga (con Oriano)
Pompiano (con Gerolanuova)
Quinzano d’Oglio
Villachiara
Ogni plesso aveva il proprio fiduciario per le comunicazioni con la direzione e la segreteria. Compii un giro di visite per presentarmi e per conoscere meglio la situazione. Ne riportai un’ottima impressione.
Inoltre, ad Orzinuovi vivevano temporaneamente alcune famiglie di sfollati e altre ne sarebbero sicuramente arrivate. L’Ispettore Scolastico aveva già chiesto al Comune l’istituzione di una classe per i bambini sfollati.
Fui subito messo in guardia che alcuni insegnanti erano antifascisti e perciò avrei avuto le mie brave difficoltà, sia sul lavoro che nel farmi accettare. In particolare Pompiano si segnalava come il comune con più elementi antifascisti. Oltre a due insegnanti, di cui mi fecero il nome, lo stesso parroco non era stato molto zelante nell’invitare i giovani ad arruolarsi.
Durante i primi giorni, prima di trovarmi una stanzetta in affitto, facevo la spola Esine-Orzinuovi in treno: a Iseo avevo la coincidenza con la linea Soncino-Rovato-Iseo. Data la scarsità di carbone si effettuavano solo due corse: una che scendeva verso Brescia al mattino presto e una di ritorno che partiva da Iseo alle 17.16 (anticipata di un minuto per scaramanzia).
Quando ebbi trovato un alloggio (presso la buona famiglia Picco) ritornavo ad Esine di solito per il fine settimana. Ripartivo poi la domenica sera o il lunedì mattino con una scorta di cibi precotti per i miei modestissimi pasti durante la settimana.
Sul treno viaggiavano anche molti insegnanti, dai loro discorsi comprendevo quanto fosse cambiata la scuola dagli anni in cui insegnavo a Brescia.
Col tempo divenne pericoloso viaggiare in treno: veniva utilizzato sempre più spesso dai contrabbandieri di farina e di sale e la linea era sempre più frequentemente fatta bersaglio delle incursioni aeree o sabotata dagli attentati partigiani. Usavo allora la bicicletta, impiegavo quattro-cinque ore. Portavo sui due portapacchi (quello posteriore e quello sul manubrio) e nello zaino, non meno di 25/30 kg. di “rifornimenti annonari” (farina, stracchini, burro, sale). Al mio arrivo a Esine, spesso mi attendevano richieste di intervento presso il Comando GNR di Breno a favore di qualche giovane o perché renitente alla leva o per altre noie politiche.
Ad Esine i partigiani, che pur mi conoscevano bene, non mi aspettavano a braccia aperte. Erano certi da un lato che mai li avrei traditi, tuttavia sapevano da che parte stavo, e mi tenevano d’occhio. Mia madre e le mie sorelle erano molto riservate, ma in caso di bisogno erano anche pronte a mettere una buona parola presso le autorità fasciste.
Nella “Corte celeste” si affacciava la casa di Andrea Salvetti (Andréa Hènha Bràh), uno degli organizzatori della resistenza in Esine. La mia famiglia ne era perfettamente al corrente: spesso veniva anche il comandante Bruno (il dott. Raffaele Bazzoni).
Nonostante i fitti presidii germanici lungo la linea, e il continuo timore di bombardamenti, il contrabbando di viveri era all’ordine del giorno. Confesso che anch’io l’ho praticato: al contrario che da noi in Valle, nella Bassa si riusciva più facilmente a trovare farina, verdure, civaie e certe volte perfino il caffè. Alcuni ribelli ardivano salire armati: se scoperti, sarebbero stati fucilati sul posto.
Alla fine di novembre venne inaugurata la sede del fascio di Lovere. Alcuni facinorosi si fecero premura di devastarla a dovere, uccidendone il segretario e anche il podestà Rosa (l’episodio mi ricordava le prodezze dei cadetti a Tunisi). Per rappresaglia, poco prima di Natale furono fucilati tredici partigiani.
Nel frattempo la ricorrenza del 18 dicembre portava a riflettere sulla nostra fede. Tra me giunsi alla conclusione che la fede è componente essenziale dell’azione di chiunque sia convinto che le scelte che ad essa si ispirano non possono andar perdute, ma producono un miglioramento di per sé collettivo e durevole. Una componente che non si logora con l’uso, un lievito che dopo aver fermentato, lascia di sé nuova matrice. In nuce , è virtù irrinunciabile per ogni uomo di scuola perché anima di senso, di qualità, di spiritualità l’azione pedagogica e la reca a buon fine. “Manca un ponte fra gli uomini, fra gli uomini di buona volontà, fra gli uomini vicini e lontani” dice una poesia che ancora gli scolari mandavano a memoria negli anni ’60; metaxy (formato dalle parole greche “tra” e “con”) è un concetto chiave di ogni pedagogia; e di ogni società, aggiungo.
L’interruzione estiva dei “45 giorni” aveva indotto a pensare che il fascismo fosse definitivamente liquidato e perciò molti che avevano creduto misticamente al fascismo, si ritrovavano all’improvviso “fra color che son sospesi”, con la sensazione di essere irrimediabilmente in ritardo rispetto ai tempi, con ideali del tutto svalutati come moneta fuori corso. Ma non vi è nulla che possa rianimare fede e speranza, come il ritrovare ciò che si riteneva perduto per sempre. Nella parabola del figliuol prodigo, il padre uccide il vitello grasso per festeggiare il ritorno del figlio creduto perduto, perché insieme al figlio ritrova anche se stesso.
In quello stesso 18 dicembre sottoscrivevo il verbale di presa in carico dell’ufficio di Direzione. La coincidenza mi fece sorgere la domanda, se anch’io, nel mio piccolo, non fossi un figliuol prodigo “rientrato all’ovile” della scuola. Ubbie, che scacciai scuotendo un poco la testa con un incredulo moto di riso fra me. Non sfuggì questo mhm! fin troppo sonoro all’attenta segretaria; mi fissò incuriosita porgendomi i documenti alla firma.
«Brescia Repubblicana» il giorno dopo pubblicò un bell’articolo. Si parlava di scuola, si riconosceva la sua centralità nella nuova titanica opera di rinascita civile e nazionale. C’era ancora qualcuno che credeva nell’aristocrazia del bene, cioè in quell’atteggiamento, altamente civile, quasi oraziano (odi profanum vulgum, et arceo), che rifugge da ogni crassa volgarità, da ogni sguaiata trivialità, dalla negligente desidia, per farsi strumento di elezione, di elevazione spirituale. Ero contento di ritrovarmici.
Non fu un bel Natale, quello dell’anno 1943. E l’anno nuovo non lasciava presagire alcun miglioramento.
Da pochi giorni erano ricominciate le scuole dopo le vacanze quando giunse da Verona la notizia della fucilazione di Ciano. Rimasi esterrefatto e inorridito. Oltre allo sgambetto del 25 di luglio, Mussolini non gradiva le perplessità del genero nei confronti dell’alleato tedesco.
Non pensavo che Mussolini fosse vendicativo a tal punto. Mi andavo così confermando in due opinioni: primo, che Mussolini aveva conservato l’anticlericalismo romagnolo di fine secoloe, secondo, che la logica del potere assoluto imponeva l’eliminazione fisica degli avversari.
Il destino era in agguato e mi stava preparando un colpo su misura: come un fulmine a ciel sereno, dal ministero degli Affari Esteri il prof. Gianni Dalla Pozza mi scriveva chiedendomi se fossi disposto a trasferirmi alla direzione didattica di Plovdiv, in Bulgaria.
Per certi aspetti mi sentii anche un poco sollevato: oltre al fatto che era sempre pendente la spada di Damocle di una possibile chiamata alle armi, avevo in animo di prender provvedimenti contro alcuni insegnanti. Questi, mal conoscendomi, non prestavano assistenza durante la ricreazione e avevano cominciato ad arrivare in ritardo a scuola. Mi era capitato, infatti, di vedere i bambini gironzolare per le vie di Orzinuovi. Altre volte avevo visto gli stessi insegnanti passeggiare bellamente sotto i Portici a Brescia. E sapevo anche di volantini sovversivi distribuiti a scuola.
Ma si trattava di casi isolati. In poche settimane ero riuscito a guadagnarmi il rispetto e la stima dei maestri. E per parte mia non potevo non riconoscere la dedizione e l’intelligenza con cui svolgevano il loro difficile lavoro.
Prima di partire, salutai tutti con queste parole:
È mio dovere di comunicarVi che il Min. degli Affari Esteri mi ha richiamato alle sue dipendenze destinandomi alla direzione delle Scuole Elementari Italiane di Bulgaria.
Con profondo rincrescimento mi rassegno a lasciare la simpatica Famiglia Magistrale di questo Circolo e, solo nella coscienza di assumere un dovere più gravoso, trovo la forza per compiere, con serenità, il mio gesto.
Mi è di conforto il sapere che affido in buone mani questo Ufficio e, più ancora, la certezza che Voi tutti non avete bisogno della mia presenza per assolvere con perizia ed entusiasmo l’ineffabile missione che Vi è stata affidata.
Che la Provvidenza divina ci conceda di ritrovarCi in ore meno tragiche per la nostra Patria. Con deferenza ed affetto Vi salutaIl vostro direttore
Alcuni insegnanti mi scrissero una bella lettera che ancora conservo:
Gli insegnanti di Gerolanuova apprendono con vivo rincrescimento la notizia del temporaneo abbandono del Circolo Didattico nel quale prestavate da così poco tempo la Vostra assidua ed efficace opera di educatore e di forgiatore d’educatori.
Siamo però anche orgogliosi nel vedere riconosciuto il vostro valore dalle superiori Autorità e siamo certi porterete con valentia e profitto il nuovo, sia pur gravoso, ma alto incarico.
Nella terra alleata di Bulgaria vi accompagna il nostro pensiero costante, sicuri che anche là, come in Spagna, porterete alto il nome d’Italia ed alimenterete quello spirito mai sopito d’Italianità che anima i nostri fratelli sparsi quali sentinelle avanzate della Patria, sin nei più lontani paesi del mondo.
Essere annoverato fra le «sentinelle avanzate della Patria» mi aveva sorpreso e inorgoglito. Mi vedevo come èlimo arenario o uno stelo di sparto lottare contro l’avanzata del deserto. Mi ricordai dell’articolo scritto per il monumento su al Puerto del Escudo:
Molti piccoli nostri cimiteri provvisori, infatti, che avrebbero dovuto scomparire, assorbiti dai grossi Monumenti-Ossari in costruzione, riceveranno invece una sistemazione definitiva in modo che resteranno sentinelle avanzate di italianità fra quelle popolazioni che già li sentono cosa propria, parte notevole della propria anima risorta e rinnovellata.
Non so cosa più avesse suggestionato i bravi insegnanti, se il ricordo delle sentinelle di guardia nelle bastite agli avamposti dell’impero bizantino, i proclami futuristi o il tenente Drogo, protagonista del romanzo di Dino Buzzati che stava diventando in quegli anni un successo.
Nei giorni seguenti dovetti correre a Venezia per la conferma dell’incarico (17 gennaio), poi a Salò per le pratiche del passaporto e a Milano per il visto di transito attraverso la Romania e a Como per il visto d’ingresso in Bulgaria. Il 3 febbraio mi giunse un biglietto da Gianni Dalla Pozza, col quale mi informava che il mio passaporto era a Bolzano per il visto militare.
Ritornai per brevi puntate a Orzinuovi per dare le necessarie disposizioni alla direzione. Dovevo poi sgombrare l’appartamentino in cui abitavo, spedire a casa libri ed effetti personali, disdire le lezioni private che avevo in programma.
L’ultima sera fui a cena dal carissimo dottor Dalai, che avevo da poco conosciuto. Poi tornai a Esine per preparare le valigie e salutare familiari ed amici.
Franco ed Ernesto Ceriani, che già combattevano coi partigiani, si dimostrarono entusiasti della mia partenza. Con loro non mi avrebbero mai preso, ma erano rimasti gli amici di sempre. Una parola tira l’altra si giunse persino a elaborare un piano per il mio sconfinamento in Turchia.
La Bulgaria aveva aderito al Patto Tripartito il 1° marzo 1941, dopo l’Ungheria, la Slovacchia , e la Romania. Il Presidente del Consiglio bulgaro Fìlov e il ministro degli esteri Popòv erano giunti a Roma in visita ufficiale qualche mese dopo, il 21 luglio 1941.
Ma con l’8 settembre l’atteggiamento bulgaro era radicalmente cambiato nei confronti degli Italiani. Il nostro prestigio, tutto quel che avevamo costruito erano crollati. Non so quanta fiducia potessero nutrire i Bulgari verso la nuova Repubblica.
Le pratiche per il mio espatrio non erano però tanto semplici. Bisognava attendere il nulla osta da parte delle Autorità Germaniche per il transito in Jugoslavia. Nel frattempo molte città bulgare venivano bombardate; a Sofia erano stati colpiti anche gli edifici scolastici. Il 14 febbraio, mentre ero a letto con l’influenza, mi giunse un telespresso dal Ministero col quale mi si comunicava la revoca dell’incarico.
Lunedì 20 febbraio rientravo in direzione a Orzinuovi, e riprendevo le mie funzioni.
Ci fu uno strascico abbastanza serio: se non fosse stato per l’amicizia col Provveditore Pasero, non so come avrei giustificato l’assenza da Orzinuovi, perché non erano intercorse comunicazioni ufficiali fra Provveditorato e Ministero circa il mio incarico. Tramite Dalla Pozza richiesi che gli uffici competenti spiegassero come erano andate le cose. Altra piccola difficoltà per ottenere il rimborso delle spese che comunque avevo sostenuto: in tutto 600 lire.
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Ultimo aggiornamento 24 marzo 2010Copyright © 2009 - Vittorio Volpi
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