Ameraldi - 9.04 Orzinuovi, la guerra, l'epurazione Documento senza titolo

Oberto Ameraldi:
Una vita di fede per la scuola

Brescia : Fondazione Civiltà Bresciana, 2000. - (Cattolici & Società ; 11), p. 415-433.


9.04. Orzinuovi, la guerra, l’epurazione (parte quarta)

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Neanche a farlo apposta, dopo il mio rientro, fui subito messo di fronte a un compito tutt’altro che facile: riorganizzare i balilla.

Sulle prime confesso che fui molto perplesso, poi giunsi alla convinzione che se noi adulti ci sentivamo disorientati e incerti, o peggio ancora lacerati da odi di parte, non avevamo il diritto di trasmettere i nostri travagli e rancori ai piccoli a noi affidati. Al contrario, dovevamo svolgere un’opera di «orientamento morale» per giungere a pacificare e rasserenare anche le famiglie. Nella circolare il provveditore diceva:

Questo nobilissimo compito, il quale corrisponde pienamente alle tradizioni educative e patriottiche della scuola deve essere appoggiato in ogni modo dagli Ins.ti di ogni ordine e grado, al centro ed alla periferia, perché il Paese ha bisogno, specie in questo periodo di emergenza, della nostra opera, della nostra fede, della nostra dedizione.

Con l’Organizzazione dei Balilla e della GIL ci si era abituati ad avere una forte presenza del partito dentro la scuola. Alcuni insegnanti sentivano ora tale presenza come un’ingerenza indebita, fortemente limitante della libertà di insegnamento e perciò, dicevano, lesiva della dignità professionale e della missione cui erano chiamati.

C’era naturalmente anche il lato buono; e i vantaggi per me superavano ampiamente gli svantaggi. Dipendeva dal punto di vista: se si giudicava dal punto di vista dell’insegnante, organizzare i balilla significava carico di lavoro aggiuntivo, maggiore impegno, sopportare «direttive balorde». Dal punto di vista dei bambini – degli organizzati, come si diceva allora – la tessera di balilla voleva dire maggiore attività fisica, vita sana all’aperto, colonie estive, un pasto caldo.

Senza volermi addentrare in analisi psicologiche più approfondite, aggiungerei anche il senso di sicurezza, altamente formativo per quell’età, che derivava dal sentirsi intruppati in batteria assolutamente alla pari con altri compagni. L’educazione individuale venuta in auge in anni recenti tende a far emergere le peculiarità personali di ciascun alunno, i “talenti”; ed è senz’altro un bene. Non ho però mai sentito dire di nessun balilla che avesse “problemi di socializzazione”, espressione giuntaci bell’e impacchettata d’oltre oceano insieme alle ciùngle e al bughi-bughi.

Oltre alle 6 lire a testa per l’ONB, la scuola, e di riflesso le famiglie, venivano continuamente assillate da richieste di sottoscrizioni. Ma la richiesta di fondi per un motoscafo antisommergibili, si chiamasse pure “Leonessa”, mi sembrò francamente eccessiva. L’iniziativa era partita dal giornale “Brescia Repubblicana” e aveva suscitato reazioni vivaci nella stessa Brescia. Eppure riuscimmo a racimolare più di 2700 lire.

Questi furono anche i punti all’ordine del giorno della riunione degli insegnanti del giorno 15 marzo alla presenza del Provveditore. Fu invitato anche il Reggente del Fascio locale, che si fece rappresentare da un sostituto.

Verso la metà di aprile ricevetti una circolare con l’insolita richiesta di “bonifica libraria”, con allegato l’elenco di circa duecento fra scrittori e giornalisti i cui libri dovevano essere sequestrati e consegnati in prefettura.

Compilai diligentemente un elenco di casi dubbi: Ciano, Starace, Volpe, Marpicati, Volpicelli... Attesi qualche settimana e verso la fine di maggio sollecitai io stesso le opportune indicazioni. Per il momento non se ne fece nulla, ma per prudenza i libri rimasero impacchettati. Finalmente il 18 di novembre furono poi spediti.

Durante i mesi primaverili il fronte partigiano si stava organizzando a Brescia e nelle valli.

Nella notte fra il 10 e l’11 marzo Gelsomino e Gigi Sacilì distribuirono ad Esine il primo numero de «Il Ribelle». E altrettanto fecero altri partigiani e staffette in tutta la Valle. Quel primo numero era un semplice foglio stampato sui due lati, con una sola notizia: la cattura, il processo e la fucilazione di Astolfo Lunardi e Ermanno Margheriti (pubblico Ministero il pretore di Verolanuova, Vincenzo Federici). Sospettate della pubblicazione clandestina furono le due case editrici cattoliche bresciane, la “Morcelliana” e “ La Scuola ”. Il 16 marzo furono arrestati e interrogati mons. Angelo Zammarchi e l’amico Vittorino Chizzolini; ma furono rilasciati nella stessa giornata.

Nel frattempo era morto improvvisamente il direttore didattico di Verolanuova, Spedini. Dal 20 marzo ebbi così l’incarico di assumere le funzioni di supplente anche in quella direzione.

L’unico mezzo di trasporto a disposizione per le visite alle classi e per raggiungere Verola era la bicicletta della direzione. Questa situazione può darvi da sola una idea delle ristrettezze economiche in cui mi dibattevo. Non parlo del mio stipendio che, parrà strano, ma era meno della metà rispetto a quello di una maestrina di prima nomina: prendevo allora 1700 lire. Tenevo quella bicicletta come l’öf de Nedàl, “come l’uovo di Natale”, perché una semplice foratura comportava una tale complicazione burocratica da far desistere anche il mezzemaniche più diligente. C’è ancora una mia lettera, ora fa un po’ ridere perché sembra una barzelletta, in cui chiedevo al Provveditorato nientemeno che un copertone per bicicletta.

Visto che siamo in tema, vorrei aggiungere due parole anche sulle condizioni materiali in cui ero costretto a lavorare. Avevamo una sola macchina per scrivere; c’era inoltre una grande penuria di carta; per le minute e le circolari si usava la carta di riso, con carta carbone usata e strausata. Avevamo avuto una circolare del Provveditorato che ci autorizzava ad usare la carta intestata con lo stemma sabaudo, dopo averlo cancellato. È pur vero che le esigenze erano ridotte all’essenziale, tuttavia la corrispondenza usuale comportava tre, quattro lettere al giorno. Non avevamo ancora il telefono.

Prendendo a prestito i versi di una poetessa di Verola, Cecilia Lenzi Tibaldini (1872-1921), vorrei anche darvi in due parole un’immagine dell’infanzia di allora:

Descals da i prim de Mars a Sant Martì
disipacc che parì capi de làder
rampegà sö le piante, andà per ní
sí ’n po’ la danassiù de òsta màder
che quand la ga le braghe de giöstà
no la sa de che banda scomensà
...
A sich, a sés, i cor per i stradù
pié de moségn, de polver, de südùr,
e i se dà sgombetàde abòt, vürtù
e i làssa ’ndré ’na pólver e ’n udùr

Quasi ogni giorno ero fuori sede per le visite alle classi o per qualche altra incombenza dal Commissario Prefettizio, dal Commissariato Prezzi o a Brescia.

Per qualche tempo potei mangiare a mezzogiorno alla mensa dopolavoro dello stabilimento Bellometti. Ma gli operai non amavano vedere i distintivi della Repubblica – a Orzinuovi solo otto eravamo iscritti al nuovo partito –, e così fui cacciato in malo modo, non tanto perché non mi rispettassero e apprezzassero, ma solo per il distintivo.

Un caro collega, che già avevo conosciuto all’estero, il prof. Verro, mi invitò alcune volte alla mensa del Commissariato Prezzi, dove si mangiava molto bene. Inoltrò per me la domanda perché potessi accedervi regolarmente, ma senza esito. A qualche maniera mi arrangiai, ma non mangiavo abbastanza. Ero giunto a pesare 50 chili. Nessuno di quanti mi hanno conosciuto in anni recenti potrebbe crederlo. Per indicare la situazione di ristrettezza, mi ritornava spesso un’espressione dialettale: Piö cahtègne a l’àden, gnè hchèlt ho ’m pèr i mür, non ci saranno più castagne per l’asino, né farina neccia sui muri.

Rividi in quei giorni anche una conoscenza di Tunisi, Pietro Sforza. Scrissi per lui due righe al capo del personale della sezione locale del Commissariato Prezzi per un posto di autista.

A pesare sempre su tutto con l’incertezza dell’imprevisto ad ogni istante, c’era la guerra, col suo carico di privazioni, difficoltà, apprensioni, lutti.

Orzinuovi fu bombardata ben 19 volte, soprattutto durante l’estate del 1944. Diversi centri attorno a Brescia erano stati colpiti durante l’inverno e la primavera: Montichiari, Palazzolo, Calcinato, Isorella, Calvisano, Barbariga, Ghedi e altri.

Il provveditore fin dall’inizio di aprile ci aveva dato disposizioni su come comportarci in caso di allarme e sui vari ordigni bellici che sempre più frequentemente venivano segnalati. Già si erano verificati casi di fanciulli mutilati e anche uccisi.

Le strade non erano sempre sicure. Si sentiva spesso il rombo minaccioso di qualche aereo: più cercavo di correre, pedalando a tutta forza, più sembrava che l’apparecchio ce l’avesse proprio con me. Finché non se n’andava nel cielo per i fatti suoi. Mi fermavo un attimo sul ciglio della strada per un po’ di rifiato e ringraziare il cielo per lo scampato pericolo. Arrivato poi in Direzione trafelato e sudato, raccontavo scosso e concitato dell’accaduto e le maestre a loro volta mi dicevano com’era andata a scuola e dello “spaghetto” che anch’esse e i bambini avevano preso.

La scuola si trovava fra l’incudine del passato, rappresentato dal rinnovato fascismo e il martello dell’avanzata alleata lungo la penisola e parallelamente dall’opera degli antifascisti e dei partigiani nell’Italia del Nord. Si respirava nell’aria che l’Italia si trovasse di fronte a un cambiamento epocale. Noi insegnanti, senza peraltro averne completa coscienza, sentivamo il dovere di preparare la nuova generazione all’imminente cambiamento, qualunque esso fosse. Nell’intrico dei vari dogmatismi ideologici bisognava trovare la strada per insegnare ai piccoli ad essere uomini e Italiani. Bisognava aver ben chiaro ciò che era dovuto alla situazione contingente, e che infiammava gli animi e quel che invece poteva durare anche dopo la febbre, l’esaltazione, lo spasimo degli anni di guerra.

Da sempre la scuola prepara i bambini per il loro futuro: e in quegli anni fu una sfida pedagogica sublime e perfetta. La storia, gli avvenimenti, avevano azzerato al presente le prospettive, ogni legittima previsione. Mai come in quei terribili mesi compito di noi insegnanti fu il forgiare uomini preparati al domani. La realtà pratica quotidiana dava materia alla speculazione teorica più ardita, alla nitidezza più adamantina. La missione pedagogica dell’insegnante si intrecciava con l’ideale patriottico del cittadino: «bisogna esser disposti a morire, affinché la Patria viva e in essa viva la sola vita che conta per noi, ossia salvare la vita dei nostri figli e delle generazioni future».

Nel bambino dovevamo educare l’uomo, semplicemente l’uomo, dargli gambe per la sua strada, mani per il suo lavoro, testa per ragionare, fantasia per inventarsi una libertà a propria misura... e forse anche ali, per elevarsi un poco sopra questa valle di lacrime, per non vedere e non ricordarsi tutto, per non rimanere troppo ancorati alle quisquilie terragne. Ed all’occasione osare per sé il volo ben ponderato di Dedalo o il folle volo di quella mente contorta dell’astuto e prudente Odisseo.

Non avevamo alcuna idea, naturalmente, di come le cose si sarebbero poi evolute e concluse. Noi stessi avevamo bisogno di direttive. Ma a chi credere, oramai, di chi poterci fidare, chi poteva pensare a noi e capirci?

Ma quelle riflessioni rimasero appunti dispersi, frammenti d’un discorso di frequente interrotto.

Fortuna volle che a capo della scuola ci fosse in quegli anni un ministro di grande intelligenza. Capiva il travaglio di noi insegnanti e sapeva che la scuola era uno strumento valido, sano e ancora forte, che poteva aiutare bambini e famiglie a superare gli anni difficili, a prepararli ad affrontare con fede e buona volontà la grande opera di ricostruzione dell’Italia dopo la guerra.

Il ministro si chiamava Carlo Alberto Biggini; fra i collaboratori di Mussolini fu chiamato “il professore”. Con lui scomparvero le divise dei balilla e i saggi ginnici; fu messa da parte la Carta della Scuola e rispolverata la “Riforma Gentile”. Nella piena consapevolezza che la scuola partecipava appieno, ma in altro modo, alle vicende politiche e belliche, riuscì a tenerla lontana dalla virulenza degli odi, dalla violenza delle passioni, dagli schieramenti di parte, “uomini di parte non possono reggere un tutto”. La scuola non avrebbe più formato dei fascisti, ma semplicemente degli uomini e degli Italiani, in senso risorgimentale.

Nel febbraio 1944 il Ministro diramò un messaggio Agli uomini di scuola che copiai a macchina e distribuii a tutti gli insegnanti. Iniziava così:

Gli avvenimenti del luglio e del settembre 1943, ripercuotendosi dalla nazione nella Scuola, ripropongono a tutti i docenti il problema della loro missione sul piano morale e politico, scientifico e sociale. Da questo piano la scuola militante non può estraniarsi senza mortificare le proprie energie, riducendosi ad un’anacronistica e vacua ripetizione di formule e schemi. La storia riplasma giorno per giorno criticamente la cultura e la vita; ma anche la vita riafferma i suoi diritti sulla storia, vivificandola e illuminandola a tratti più o meno intensi, e talvolta addirittura rovesciandone le posizioni e imponendo le previsioni più radicali e severe.

Parole chiare, taglienti, risolute. Il ministro considerava “abbandono di posto di fronte al nemico” ogni esitazione, ogni parola «non nata da quel clima di comunione spirituale che essa deve creare nella scuola». Tradimento era considerato il «non sentire o trascurare o soffocare le grandi, genuine, intatte forze in mezzo alle quali essi [gli insegnanti] hanno liberamente scelto di operare», come pure «dimenticare la preziosa azione che dalla scuola si propaga nella famiglia, in tutte le categorie sociali».

Quella circolare fu una grande lezione di vita, che mi aiutò a vedere con occhi disincantati la realtà: la mia forza, il mio lavoro era dunque come l’aria sospinta dal mantice a render più vivi i rossi carboni della forgia.

Non dobbiamo ingannarci intorno alla gravità della presente situazione; non dobbiamo crearcene una immagine meno consolante di quella che corrisponde alla realtà. […] Non rispondete “Lasciateci pensare ancora un po’. Lasciateci ancora un po’ dormire e sognare, il miglioramento verrà da sé”. Esso non verrà mai da sé. Chi avendo indugiato ieri non riesce a volere neanche oggi, stia pur certo che domani vorrà ancor meno.

Era diffusa la tentazione di cedere di fronte alla paura, di abbandonarsi fiduciosi alla speranza di un miglioramento, all’attesa di una liberazione. Ma ecco la sferzata:

Non ci resta che trovare un vincolo nuovo, posto al di sopra della paura e della speranza, che ricolleghi tutti, che sospinga tutti alla decisione, al sacrificio. […]

Sofferenza e fede convissute creano tra maestri e discenti quel vincolo dello stesso sentire e dello stesso soffrire che è più saldo di quanto l’intelletto possa creare. Sarà appunto quell’unico sentire e quell’unico soffrire che spingerà ogni docente a dare al suo lavoro quotidiano un potenziale di più alto impegno morale.

Ci voleva una tempra d’eroi. Di eroi per giunta inconsapevoli e comprensibilmente riluttanti, che non bruciassero il proprio slancio in una azione unica, epica, esemplare, ma che costantemente, quotidianamente, tenacemente reggessero la fatica di tener fede ai propri ideali.

Sentivo nell’aria che un grande cambiamento si andava profilando: qualcosa di grande era in agonia, o già morto; annunciato da presentimenti, da sensazioni, da vari trasalimenti all’udire certe parole. Come io stesso fossi uno di quei marinai che al tempo della nascita di Cristo, costeggiando l’Epiro udirono la voce: «Il grande Pan è morto».

La risalita, lenta e vittoriosa, degli Angloamericani lungo la penisola e l’alleanza non casuale con l’Unione Sovietica erano interpretabili come minaccia dell’avanzata del materialismo.

E lo si vedeva anche nell’atteggiamento di molti, attenti a tirare le somme del proprio tornaconto, preoccupati del proprio “particulare”, disinteressati, indifferenti, «distratti di fronte alla Patria dolorante».

Il classico apologo di Fedro del lupo e del cane coi segni della catena attorno al collo ritornava attuale:

Coloro che amano il vivere pacifico, quel vivere che soprattutto sta loro a cuore, anche se vinti dallo straniero, anche se lo straniero vorrà ridurli in schiavitù, troveranno che anche la schiavitù è sopportabile perché non manca la vita ed il sostentamento, perché una amministrazione esiste e la pace regna. E allora, perché combattere? perché continuare nella lotta che toglierebbe loro la pace e la vita? Anzi, faranno di tutto perché la lotta finisca presto, si adatteranno, cederanno. E perché non dovrebbero farlo essi? Vogliono soltanto continuare a vivere nelle loro abitudini, vogliono vivere nelle loro condizioni tollerabili.

Quasi che per essi l’avere una Patria non avesse più alcun significato. E per quanti non giungevano a tanto, la realtà dell’Italia divisa aveva portato a mettere in dubbio l’unità spirituale della nazione. Senza un’Italia unita, perdeva identità anche l’Italiano: per questa identità nuova, inedita, “da farsi” val la pena rischiare ogni cosa:

Più incerti di noi sull’avvenire d’Italia, [i padri risorgimentali] dopo aver tanto lottato e tanto sofferto, dopo tanta miseria e sangue per riscattarla, hanno sempre benedetto quell’epoca. Ed invero la vita solo così, perché dedicata ad un fine che ci trascende, è degna di essere vissuta, ed in questo fine sta il vero segreto, supremo atto di libertà, nel quale ciascuno di noi ritrova se stesso.

Il Ministro era già passato attraverso il mio travaglio personale, sapeva che cosa si agitava nella mente di molti maestri, egli stesso doveva esser messo alla prova. Con mente lucida era passato fra Scilla e Cariddi e così consigliava: (sottolineai le parole e richiamai l’attenzione sul passo con due tratti di penna sul margine)

[L’Italiano] deve saper chiaro se sogna, vaneggia o ragioni: deve o proseguire la sua via per la via dei nostri autori, dei nostri padri con salda risoluzione, con sicura e lieta coscienza, con altissima fede o deve rinunciare ad avere una Patria. […] Se molti o pochi Italiani lasceranno che l’appello della Nazione passi su di loro, nessuno più farà assegnamento su di loro. Ciascuno prenda una risoluzione irrevocabile: ciascuno prenda questa risoluzione in se stesso, per se stesso, come se fosse solo al mondo e dovesse fare tutto da sé. Se molti individui penseranno in questo modo, presto avremo un grande tutto, fuso in un’unica forza compatta.

Aveva capito che le prove della guerra e degli avvenimenti ci avevano indebolito e sfibrati, che tuttavia avevamo conservato la soddisfazione di aver servito il nostro paese senza tornaconto con la coscienza d’averlo fatto senza secondi fini, “nudi alla meta”, come l’atleta di Olimpia che vinceva per il solo onore ed orgoglio d’un ramo d’ulivo:

Siamo stati sottoposti ad una prova, sono precipitate nel nulla le riserve mentali, gli inganni ed i meschini miraggi pseudo-filosofici. Oggi siamo più puri, nudi di ogni estraneo involucro, noi che [siamo] null’altro che quello che siamo. E ora deve rivelarsi ciò che siamo o non siamo realmente.

Il contatto stretto fra scuola e società si realizzò in modo mirabile, per slancio di generosità, per comprensione della drammaticità del momento, per consapevolezza civile.

Non ho mancato di farmi promotore di iniziative di solidarietà anche negli anni a venire, ma mai ho riscontrato l’entusiasmo e il senso di solidarietà come a Orzinuovi. Mi vengono in mente tre esempi: la confezione di indumenti per sfollati e sinistrati, la giornata del mutilato e la “Settimana del profugo” di metà giugno.

Alcune maestre e casalinghe zelanti avevano costituito un laboratorio femminile sotto l’egida dell’Organizzazione Balilla, per conto dell’Ente Provinciale di Assistenza fascista. Sollecitai le insegnanti del Circolo a imitarne l’esempio:

Già varie persone, e tra esse alcune insegnanti, lavorano alacremente per approntare lenzuola, pannicelli, soprabiti, vestine, blusette, abiti, paltoncini, mutandine, cuffiette, coprifasce, ecc. ecc. ma sono in numero insufficiente al bisogno.

Segnalo la nobile e patriottica iniziativa a tutte le insegnanti del Circolo, le quali, ne sono certo, saranno ben liete di offrire la loro collaborazione e quella delle loro alunne più abili.

In occasione delle celebrazioni della “Giornata del mutilato”, indetta per il 25 aprile, su indicazione del Provveditorato venne svolto in tutte le ultime classi un tema, a commento di una frase di Mussolini: “I mutilati sono l’aristocrazia della nazione”. Gli scolari scrissero pensieri semplici, ma molto sentiti. L’affermazione di Mussolini poteva suonare stonata rispetto al modo in cui nella pratica i mutilati venivano considerati. Tutte queste contraddizioni le cogliamo noi, oggi, adulti, ma allora simili disposizioni servivano a spostare sul piano ideale e a trasfigurare le miserie quotidiane, i danni materiali e le inevitabili disgrazie della guerra, spremendo anche da essi un’ulteriore stilla di senso e dando ai poveri mutilati un effimero momento di gloria. Nel caso fossero rimasti delusi dal trattamento loro riservato dallo Stato, esso, tramite la Scuola, restituiva loro un calore umano e una comprensione delle loro sofferenze che materialmente non poteva risarcire.

A volte fremevo di fronte a circolari che sfruttavano a fini propagandistici situazioni dolorose. Come era capitato all’inizio di febbraio col caso di una povera orfana della provincia di Varese.

Per domenica 14 maggio fu organizzata a Orzinuovi una grande manifestazione patriottica; avevo invitato gli insegnanti a prendervi parte: oratore ufficiale era il tenente cappellano don Cìceri.

Contemporaneamente, l’attività partigiana in Valle era al suo apice. Radio Londra la sera di lunedì 15 trasmise uno dei tanti messaggi in codice per avvisare i partigiani della Valcamonica di un lancio imminente, identificato in codice con la frase “La neve cade sui monti”. Venni poi a sapere che furono settimane febbrili di attività partigiana in Valle. Ed era solo l’inizio.

Il tradizionale E su e giù per la Val Camonica veniva cantato con una variante – il sudore freddo del pericolo lungo la schiena; i cuori infiammati, forti e colmi di passione –:

Noi della Val Camonica
discenderemo al pian.
Non più la fisarmonica
ma il mitra tra le man.
E su e giù, e per la Valcamonica
non si sente che sparar.

 


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